Resta una vicenda difficile da chiarire quella dell’incontro tra Octavio Paz e Ulises Lima. Il celebratissimo Nobel messicano e il fondatore del cosiddetto “realismo viscerale” sono i protagonisti di uno degli ultimi capitoli della seconda parte de “I detective selvaggi” (1998), il labirintico romanzo di Roberto Bolaño. Quella raccontata dallo scrittore cileno attraverso la testimonianza di Clara Cabeza, la segretaria personale del Nobel, sarà pure il frutto di una straripante creatività narrativa, ma la vicenda racchiude in sé più di un elemento simbolico per comprendere quell’antagonismo tra generazioni che riesce comunque a dar vita ad una fertile dialettica. In quell’ottobre del 1995, a incrociare il loro cammino in un sentiero del Parque Hundido di Città del Messico furono, presumibilmente, due contrapposti mondi poetici. Da un lato lo scrittore riconosciuto e osannato, incarnazione della cultura ufficiale, dall’altro il poeta bandito dal proscenio culturale, provocatore marginalizzato e nomade. Cammina in un senso Octavio Paz, cammina nell’altro Ulises Lima. A testa bassa non possono riconoscersi: sprofondati ciascuno nel proprio guscio, si ignorano. Dopo due giorni, però, l’incontro si realizza: una breve conversazione distesa, finalmente tollerante. Cosa si dissero Clara Cabeza non sa dirlo e la penna di Bolaño cessa il suo investigare.
A gettare luce sull’intrigo ci pensa un’opera particolarmente suggestiva: “Anch’io sono scrittura” (Edizioni SUR, 2014), l’autobiografia di Octavio Paz curata da Julio Hubard montando abilmente scritti, frammenti e versi dell’opera dello scrittore messicano in un appassionato racconto in prima persona che mostra un’esistenza fatta di “avidità molteplice”. La vita, i libri, “quegli incontri che si confondevano immediatamente con le immagini e le teorie che germogliavano dalle […] letture disordinate”. E la politica vissuta non come passione unica e fagocitante, ma come cammino impervio per sanare lo scontro tra i popoli e le diverse civiltà. Da qui la ri-scoperta del Messico e la compassione per la sua storia; la guerra civile spagnola, gli Stai Uniti e la rinnovata vitalità; la Francia e la solitudine; l’India e l’amore. E poi la poesia, che non può ergersi ad ariete di nessuna ideologia perché è già “espressione della perpetua sovversione umana” e, dunque, non può essere contrapposta al sentire rivoluzionario che tenta di sciogliere i nodi della storia.
Poesia è fede nel linguaggio. Reca in sé quella “pluralità di visioni del mondo” che il poeta tenta di levigare rivestendo di nuova coerenza “quegli elementi separati che si fanno così universo”. Il poeta ci spinge ad ascoltare anche quella voce che preferiremmo non udire, poiché la parola svelata fa da specchio al nostro segreto. Forse è lecito pensare che tra i sentieri del Parque Hundido di Città del Messico Octavio Paz e Ulises Lima abbiano ricordato a loro stessi questa tremenda verità per poi proseguire ciascuno per la propria strada.