La ricerca sulla sclerosi multipla negli ultimi anni ha fatto numerosi passi avanti, ora due nuovi studi gettano nuove speranze nella lotta a questa malattia degenerativa. Le ricerche sono state condotte da due neurologi dell’Università Campus BioMedico coordinati dal dottor Vincenzo Di Lazzaro e pubblicate sulla rivista scientifica Brain Simulation. Dai dati è emersa una significativa riduzione della progressione della malattia a seguito della stimolazione cerebrale non invasiva.
Fino a questo momento, non sono state scoperte terapie capaci di rallentare la progressione della sclerosi multipla, ma alcune tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva basate sui campi elettromagnetici sono in grado di ridurre la risposta dei neuroni al glutammato, un neurotrasmettitore che sembra avere un ruolo fondamentale nel processo degenerativo quando si trova in eccesso. Questi è implicato nella comunicazione tra neuroni. Lo studio pubblicato da Di Lazzaro nel 2004 sulla sclerosi laterale amiotrofica, altra malattia degenerativa, era stato condotto su un piccolo numero di pazienti: durante l’esperimento, i pazienti venivano esposti una settimana al mese al trattamento e dai risultati è emersa una lieve riduzione della progressione della malattia. In secondo luogo è stato condotto un altro studio su un singolo paziente, al quale è stato impiantato un elettrodo nell’area del cervello responsabile del movimento: questi era collegato a un pace-maker capace di regolare l’eccitabilità del cervello.
Come ha spiegato il dottor Di Lazzaro: “Per quanto una singola osservazione abbia un valore molto limitato nel valutare l’efficacia di nuove terapie, per cui è richiesta la dimostrazione degli effetti positivi in grandi numeri di pazienti i risultati di questo studio, pubblicato ancora su ‘Brain Stimulation’, appaiono alquanto sorprendenti. Il medico aveva cominciato a presentare i primi sintomi nel 2004, all’età di 56 anni; prima dell’inizio della stimolazione la malattia aveva una progressione talmente rapida da far prevedere una sopravvivenza non superiore a tre anni“. Il paziente, un medico, che si è sottoposto all’esperimento è ancora in vita a distanza di 13 anni, anche se necessita di ventilazione assistita.