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Se non ci mettiamo più il cuore

03/01/2019 22:31 - Aggiornamento 06/08/2019 15:45

“Andrea se la musica ti chiama e vuoi che diventi tua amica, vuoi che diventi arte, devi metterci il cuore: apri il tuo cuore alla musica!”. A pronunciare queste parole mio nonno, musicista di professione a tal punto innamorato della musica che per seguirla a soli 28 anni e senza un soldo in tasca aveva lasciato il suo paese d’origine per andare nel nord Europa, in una nazione sconosciuta e della quale nemmeno parlava la lingua. Metterci il cuore, sì. Avevo sei anni e lui settantasei, ma tutto mi pareva così semplice e bello. Aveva ragione il nonno, lui che il cuore l’aveva malato eppure l’avrebbe messo senza risparmio nella sua passione fino all’ultimo giorno, fino all’ultimo battito. Grazie all’insegnamento del nonno la musica per lungo tempo è stata mia amica intima, tanto da rubarmelo il cuore. E ancora oggi lo fa vibrare, anche se la frequento quasi solo da ascoltatore e non da musicista.

No, non voglio parlarvi di me in questo editoriale. Anche se spesso nella vita ho disatteso la lezione del nonno e – giustamente – ne ho sempre pagato le conseguenze. E nemmeno voglio parlarvi di musica. Però voglio parlarvi di cuore, perché ve ne sarete accorti, il nostro grande cuore collettivo, quello per cui siamo sempre stati nel mondo un esempio è come se stia per smettere di battere. Direte no, non è vero. C’è molto cuore, forse nascosto, nelle pieghe d’Italia da Nord a Sud, dalle città ai piccoli paesi dove ogni giorno si compie il “miracolo” della convivenza civile. Forse è così, ma è davvero difficile sentirlo battere questo cuore. Perché troppo spesso non viene raccontato come invece dovrebbe. Ma ancora più spesso perché viene offeso, umiliato, ferito a morte, perché il miracolo non si compie più.

Pirozzi, sindaco Amatrice: «C’è il rischio che finita l’emergenza le casette dei terremotati vadano agli immigrati»

Questa mattina leggendo le parole del vice sindaco di Arquata del Tronto, uno dei piccoli paesi del centro Italia devastati dal sisma del 24 agosto 2016, mi sono sentito offeso, ferito. E mentre l’amministratore di questo piccolo centro cancellato dal terremoto spiegava che il governo (il precedente e l’attuale) non ha rispettato le promesse e non ha inserito nella legge di bilancio l’articolo che avrebbe permesso lo sgombero delle macerie, ho sentito il cuore gemere. Sì, le macerie sono ancora lì, dopo più di due anni. E di ricostruzione non se ne parla ancora. Arquata del Tronto, Amatrice, Accumoli, Castelsantangelo sul Nera: tutti i paesi distrutti dal terremoto sono un cumulo di macerie da due anni, eppure è tutto normale, tutto banale. Ha detto Sergio Pirozzi, già sindaco di Amatrice e oggi impegnato nel difficilissimo incarico di Commissario alla ricostruzione: «Faccio parlare i freddi numeri: il 50% delle macerie è ancora sul terreno, le abitazioni che potrebbero essere rimesse a posto sono rimaste come le ha lasciate il sisma. C’è un processo lento, troppo lento, che logora. Solo 72 pratiche su danni lievi di livello B su 400 sono state accolte…».

Già, non ci mettiamo più il cuore. Ok, ma qui servirebbe prima di tutto metterci il buon senso, il dovere istituzionale di provvedere agli atti legislativi necessari, il dovere di provvedere agli stanziamenti finanziari indispensabili e dovuti. Sì, va bene. Ma se non ci metti il cuore succede che vieni fagocitato dalla burocrazia, che passi mesi a decidere chi deve essere il commissario straordinario alla ricostruzione mentre le gente dorme nelle roulotte e aspetta la casetta provvisoria, per mesi, anni. No, adesso è ora di dire basta. Il 2019 se davvero deve essere “un anno migliore” deve iniziare da questi piccoli grandi cambiamenti: se non ci arriva la politica, si mobiliti il Paese, la società.

Smettiamola di pensare e guardare solo nel nostro piccolo orticello, perché al terremoto non frega nulla del nostro orto, prima o poi lo travolge. Facciamo in modo che i nostri muscoli nel petto diventino un unico e grande cuore al servizio della collettività, anche a costo di mettere tenda a Roma, sotto Palazzo Chigi. Che cos’è la buona politica se non la cura disinteressata dell’interesse collettivo? Lo possiamo, lo dobbiamo fare. Lo sappiamo fare, basta prendere esempio delle centinaia di migliaia di volontari che ogni giorno prestano la propria opera (il loro cuore…) gratuitamente e appassionatamente per soccorrere le popolazioni vittime di ogni genere di calamità. Tutti volontari, ricostruiamo il nostro essere Nazione, il nostro valore più grande: l’essere una società solidale e forte, memore del suo grande passato ma con voglia di immaginare il futuro, senza più macerie a soffocarlo. E per farlo mettiamoci tutto il cuore che abbiamo. Perché così, quando smetterà di battere, avremo dato davvero un senso alla nostra Storia.