Asaph Polonsky decide di non risparmiare nulla al suo pubblico e intreccia l’ironia e il dolore estremo nella sua prima pellicola, Una settimana e un giorno. Una trama quasi minimalista fa da sfondo alla riflessione e al sapore portato dal film allo spettatore. Eyal e Vicky, coppia di tradizione ebraica, affrontano la perdita del figlio. In seguito ad una settimana di shiv’ah per i familiari, i due si prenderanno del tempo per sé e, mentre lei cerca di rientrare nella routine che la rassicura, lui intraprenderà un’amicizia con il figlio degli odiosi vicini di casa. Una sceneggiatura dello stesso Polonsky, che commuove con una semplicità disarmante, la linearità della trama, infatti, è affiancata da una minuziosa descrizione psicologica, che affonda la radici nei gesti quotidiani dei personaggi. Shai Avivi, protagonista del film, si apre completamente: la sua personalità ruvida si mostra anche godibile, mentre Evgenia Dodina, contrasta e allo stesso tempo valorizza la componente ironica di Shai, creando un mix irresistibile di ossimori.
La scelta della cultura ebraica è dirimente e per quanto riguarda la gestione del lutto e per l’umorismo. La tradizione rende l’attesa della propria solitudine quasi una parte del rituale, mentre l’umorismo yiddish fa da contrappunto nel corso dell’intera pellicola. Il popolo ebraico, del resto, ha sempre enfatizzato la propria autoironia, nata dalla mancanza della patria e dalle situazioni storiche che hanno contraddistinto il popolo israeliano. Woody Allen, i fratelli Coen e Philip Roth sono sicuramente gli esempi più calzanti di questo tipo di humor, che il regista di Una Settimana e un giorno sposa in pieno: uno stile scanzonato e agrodolce che ha tutto il sapore della tragicommedia. Non c’è un’esplicita ricerca psicanalitica, ma semplicemente un’auto-manifestazione delle emozioni nei gesti comuni, per cui vediamo il temperamento rude di Eyal smorzato dalla razionalità di Zooler, che tenta di riabbracciare la propria vita.
Una settimana e un giorno, candidato alla Caméra d’or a Cannes 2016 e vincitore di diversi Israeli Academy Awards, sorride davanti alla perdita e, forse, si incanala in una riflessione molto più pesante della leggerezza che traspare dalla pellicola. Mentre Zooler, infatti accoglie la morte come una necessità, una sorta di fatalità che le ha ormai segnato l’esistenza e dalla quale non può sfuggire, Eyal fa di tutto per rigettarla. L’uomo, nel disfattismo che rigetta le regole, mostra quella che è la tragedia di una comunità incapace di elaborare il lutto, del popolo israeliano bloccato davanti alla morte.
Eyal trova la forza di affrontare il proprio lutto solamente approcciandosi a quello di un altro: assistendo al funerale di un uomo che ha perso la sorella. Questo, forse, è proprio il profumo che lascia questo film e la domanda che incarna: è mai possibile superare un lutto?