Dal primo gennaio 2022 è entrato in vigore l’obbligo di raccogliere i rifiuti tessili in modo differenziato per promuovere l’economia circolare e salvaguardare l’ambiente. Ma i Comuni italiani sono pronti ad affrontare questo importante cambiamento?
Negli ultimi anni il settore della raccolta e del recupero degli abiti usati ha conosciuto un periodo di forte crescita grazie a numerose iniziative di beneficenza e all’istituzione di una filiera circolare per il riuso e il riciclo degli scarti prodotti dalle industrie tessili.
La questione, però, non riguarda solo le grandi aziende di produzione e distribuzione, ma anche i rifiuti tessili urbani che ogni anno affollano cassonetti e discariche, creando non pochi problemi sia al livello finanziario sia in termini di stoccaggio.
Secondo gli ultimi dati ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), nel 2020 sono state raccolte complessivamente 143,3 tonnellate di frazione tessile, registrando un calo del 9% rispetto all’anno precedente.
In concomitanza al pacchetto di direttive sull’economia circolare varato dall’Unione Europea, anche l’Italia ha previsto una serie di misure per ridurre la produzione dei rifiuti e, contemporaneamente, incrementare la percentuale di riciclo.
Dal 1° gennaio 2022, infatti, è entrato in vigore il decreto legislativo 116/2020 che sancisce l’obbligo di raccogliere in modo differenziato anche gli scarti tessili per sottrarre alle discariche tonnellate di rifiuti urbani da destinare al riuso o al riciclo.
L’obbligo non basta, occorrono interventi concreti
Secondo l’art. 205 del Dlgs 152/2006 relativo alla differenziazione obbligatoria a partire dal primo gennaio 2022, l’obbligo di raccogliere i rifiuti tessili in modo differenziato si rivolge in via esclusiva ai Comuni, senza quindi coinvolgere le imprese private.
Il problema, però, è che a oggi molti enti locali non dispongono di un sistema di raccolta ad hoc per il tessile e, dal momento che il Ministero della Transizione Ecologica non ha fornito alcuna linea guida al riguardo, raggiungere in breve tempo gli obiettivi prefissati non sarà facile.
Secondo un articolo pubblicato il 4 gennaio 2022 dal Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA) sul sito istituzionale, al momento la raccolta differenziata dei rifiuti tessili è strutturata solo parzialmente sul territorio nazionale.
Vero è che in molti Comuni italiani sono già stati messi a disposizione dei cittadini appositi punti di conferimento come campane e cassonetti, ma questo ovviamente non basta. Per ridurre i rifiuti e rendere le città più sostenibili servono interventi e strategie in grado di supportare gli enti locali nel raggiungimento del target di differenziazione entro l’anno 2025.
Gli incentivi per il settore tessile
Come dicevamo, sancire un obbligo senza prevedere un sistema in grado di supportarlo non è mai una strategia vincente, anzi rischia solo di creare confusione tra i cittadini e le piccole imprese locali.
Inoltre, non basta raccogliere i rifiuti tessili per rendere tutto lucido e tutelare l’ambiente, ma bisogna anche capire come smaltirli o riciclarli in modo sostenibile.
Per potenziare le risorse necessarie a raggiungere gli obiettivi di raccolta, riuso e riciclo del tessile, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha previsto l’istituzione dei cosiddetti “Textile Hubs” con l’obiettivo di destinare una parte delle risorse stanziate dall’UE alle aziende del comparto per promuovere un modello sempre più sostenibile di economia circolare.
I 600 milioni di euro da investire nel potenziamento della rete di raccolta differenziata verranno ripartiti su quattro linee destinate rispettivamente al riciclo e alla raccolta dei Raee, all’ottimizzazione della raccolta della carta e dei rifiuti plastici e, infine, ai “Progetti Faro” nel settore tessile.
A questo si aggiunge anche un altro valido strumento previsto dalla politica europea in materia di sostenibilità ambientale: applicare il sistema EPR (Responsabilità Estesa del Produttore) anche ai comparti della moda e del fashion system italiano per fare in modo che gli stessi produttori diventino responsabili dell’intero ciclo di vita dei loro prodotti fino alla fase finale dello smaltimento.
Se messe in pratica, queste strategie contribuirebbero ogni anno a sottrarre alla discarica e alla termovalorizzazione oltre 130.000 tonnellate di rifiuti tessili, che verranno recuperati e destinati al riuso o al riciclo.
Altre iniziative virtuose
Per quanto il nuovo obbligo imposto ai Comuni sia una buona notizia in ambito di ecosostenibilità, è fondamentale anche orientare iniziative e risorse verso un riciclo di qualità.
In questo modo realtà come il polo tessile di Prato o di Biella, già abbondantemente sommerse da abiti e tessuti usati, riuscirebbero a tirate un respiro di sollievo riducendo in maniera considerevole la quantità di rifiuti (circa 90 milioni di capi di abbigliamento) che ogni anno finiscono nelle discariche, invece di essere recuperati o smaltiti in modo sicuro per l’ambiente.
Il raggiungimento di tale obiettivo oggi è reso ancora più difficile dai prodotti della fast fashion, realizzati per la maggior parte con tessuti e materiali non facilmente riciclabili.
Fortunatamente, oltre alle associazioni e agli istituti di beneficenza che raccolgono gli indumenti usati da destinare alle famiglie con difficoltà economiche, su tutto il territorio nazionale sono state sviluppate molte valide iniziative per contrastare l’inquinamento del settore tessile.
È il caso del brand Rifò che dal 2017, a Prato, produce capi e accessori moda utilizzando solo fibre rigenerate di cotone, lana e cashmere, oppure del progetto “Green Of Change” istituito da Garmon Chemicals per ridurre radicalmente il rilascio di sostanze chimiche pericolose nell’ambiente durante tutto il processo di finissaggio dei prodotti tessili.