Il Coronavirus da febbraio ha messo in ginocchio l’Italia e ha saturato i media di informazioni, ma del “metodo Piacenza” non si è parlato abbastanza. All’inizio di questa epidemia i medici e il personale sanitario si è trovato di fronte a qualcosa di nuovo e spaventoso. Trovare il giusto modo per affrontarlo non è stato facile. Ospedali sommersi da malati in fin di vita e il senso di impotenza di fronte a tutto questo. Nella disperazione generale, Luigi Cavanna, primario di Oncologia, sviluppa un’idea controcorrente ma molto efficace. Stiamo parlando del metodo Piacenza, una strategia che ha evitato una strage.
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Coronavirus, il dramma iniziale
“All’inizio si pensava fosse una infezione virale, forse più brutta dell’influenza, ma nulla di così rilevante. Poi ci siamo resi conto che invece è una malattia drammaticamente seria”. Luigi Cavanna, primario dell’ospedale di Piacenza, con la sua voce calma e pacata inizia a spiegare com’era la situazione e poi l’illuminazione. Il metodo Piacenza può essere riassunto così: “Il paziente deve essere trattato tempestivamente e questo vuol dire che va curato a casa”. Semplice, eppure piuttosto complesso. Soprattutto se devi inventarlo quando, nei primi istanti dell’epidemia, la scienza medica si sta dirigendo in massa nella direzione opposta. “Se torniamo indietro nel tempo, ricorderete che tutte le televisioni, nazionali o locali, facevano questa raccomandazione agli italiani: state a casa e non andate al Pronto soccorso. Il problema è che diverse persone hanno seguito il consiglio assumendo solo tachipirina e alla fine non riuscivano più a respirare, chiamavano il 118 e arrivavano di corsa in ospedale”.
Il metodo Piacenza
“Lavoro in oncologia ed ematologia, reparti abituati a confrontarsi con la sofferenza e la morte. Ma in quei giorni ho avuto l’impressione ci trovassimo di fronte a qualcosa mai visto prima. Faceva paura, talmente tanti erano i malati in quei lettini di fortuna. Le ambulanze arrivavano in fila a portare altri pazienti, io mi guardavo intorno, incrociavo gli occhi dei colleghi. Avevamo la percezione di non farcela“. E’ proprio in questa situazione drammatica che arriva l’idea. “Nelle riunioni cercavamo sempre di aumentare i posti nelle emergenze e nelle rianimazioni, ma poi abbiamo capito che questa è una infezione virale che ti lascia del tempo per intervenire. Non è un ictus, un infarto o un arresto cardiaco che colpisce in pochi minuti o in pochi secondi: ti lascia una settimana o anche 10-15 giorni”. In poche parole c’è spazio per agire. Luigi Cavanna e la equipe medica decidono quindi di curare i pazienti a casa e all’insorgere dei primi sintomi.
“Il virus – spiega Cavanna – all’inizio si moltiplica, poi innesca una risposta immunitaria dell’organismo che determina una infiammazione che distrugge gli alveoli del polmoni”. Una volta che il virus è arrivato ai polmoni difficilmente si torna indietro, per questo l’illuminazione di fermarlo prima e di curare i pazienti in casa. “Su 250 pazienti curati a domicilio, le posso dire che nessuno di loro è morto. Né a casa né in ospedale. Di questi, è stato ricoverato meno del 5% e tutti sono tornati a casa, di cui la metà entro pochi giorni”.