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Età pensionabile, nuova mazzata: si lavora di più e si va in pensione sempre dopo

17/12/2025 11:13

Età pensionabile 2026, cosa cambia nella manovra

C’è una sensazione che attraversa in silenzio milioni di lavoratori italiani. Non è rabbia, non è protesta. È qualcosa di più sottile, ma anche più corrosivo. È la percezione che il traguardo si stia spostando ogni volta che sembra finalmente vicino.

Si chiama età pensionabile. Ed è tornata al centro della Manovra 2026 con una serie di modifiche che, sommate tra loro, disegnano un quadro molto chiaro: uscire dal lavoro prima dei 67 anni diventa sempre più difficile, più costoso, più lontano.

Il maxiemendamento presentato dal governo Meloni in Commissione Bilancio al Senato non usa toni drammatici. Parla di sostenibilità, equilibrio dei conti, risparmi a regime. Ma dietro il linguaggio tecnico c’è una realtà che pesa soprattutto su chi ha carriere lunghe, faticose, discontinue.

La pensione anticipata non scompare, ma viene svuotata

Formalmente, la pensione anticipata resta. I requisiti di base non vengono cancellati. Oggi servono 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini, 41 anni e 10 mesi per le donne, senza un limite di età anagrafica.

Ma la Manovra 2026 interviene su tutti i meccanismi che rendono davvero utilizzabile questa possibilità. Non con un colpo secco, ma con una serie di piccoli spostamenti che, messi in fila, producono un effetto potente.

Il primo riguarda le finestre di decorrenza. Oggi, tra il momento in cui si maturano i requisiti e l’erogazione dell’assegno, c’è una finestra di tre mesi. Una pausa forzata che già pesa su chi lascia il lavoro senza stipendio.

Dal 2032 in poi, questa finestra si allunga progressivamente. Quattro mesi nel biennio 2032-2033. Cinque mesi nel 2034. Sei mesi dal 2035 in avanti.

Leggi anche: Pensioni minime, il grande nodo della Manovra: cosa succede nel 2026

Tradotto: lavori di più, aspetti di più, incassi dopo

È una modifica apparentemente tecnica, ma nella vita reale significa una cosa molto semplice: anche quando hai finito di lavorare, non hai ancora diritto alla pensione.

Per chi esce da un lavoro fisicamente usurante, per chi viene accompagnato alla pensione da accordi aziendali, per chi non ha più un reddito stabile, quei mesi diventano un vuoto difficile da colmare.

E non è finita qui.

Dal 2027 servono più contributi

La seconda stretta riguarda i contributi necessari. Dal 2027 servirà un mese in più. Dal 2028, tre mesi in più. Dal 2029 torneranno anche gli adeguamenti automatici alla speranza di vita, con cadenza biennale.

Questo significa che l’età pensionabile, anche senza essere formalmente alzata per legge, tornerà a salire automaticamente in base all’aspettativa di vita.

Un meccanismo che era stato congelato negli anni scorsi e che ora viene riattivato, riportando il sistema previdenziale dentro una logica puramente demografica.

Il colpo più duro: il riscatto della laurea

Se c’è una misura che colpisce in modo mirato una generazione precisa, è quella sul riscatto della laurea breve.

Fino a oggi, riscattare la laurea consentiva di anticipare l’uscita fino a tre anni. Una scelta costosa, ma vista da molti come un investimento sul futuro.

Con le nuove regole, questo investimento perde progressivamente valore.

Dal 2031, sei mesi dei periodi riscattati non conteranno più. Nel 2032 diventano dodici. Nel 2033 diciotto. Fino ad arrivare al 2035, quando di tre anni riscattati ne varranno solo sei mesi ai fini della pensione anticipata.

Chi viene penalizzato davvero

La misura colpisce soprattutto i laureati triennali e chi ha conseguito diplomi universitari secondo la normativa degli anni Novanta. Ma l’effetto simbolico va oltre.

Il messaggio è chiaro: studiare non accorcia più il percorso verso la pensione. Anzi, rischia di allungarlo.

Anche per la laurea magistrale, il valore contributivo utile verrebbe di fatto dimezzato. E questo apre un fronte delicato, perché tocca diritti già esercitati da chi ha pagato il riscatto quando le regole erano diverse.

I dubbi di costituzionalità

È qui che emergono le prime critiche giuridiche. Cambiare il valore di contributi già riscattati significa intervenire su scelte compiute sulla base di una normativa precedente.

Una parte degli esperti parla apertamente di possibile violazione del principio di affidamento. Altri sollevano il rischio di una discriminazione indiretta verso una platea specifica di lavoratori.

Il governo ha inserito una clausola di salvaguardia per chi è già inserito in accordi collettivi di accompagnamento alla pensione. Ma per tutti gli altri, la stretta resta.

L’obiettivo dichiarato: meno pensioni prima dei 67 anni

Secondo la relazione tecnica, queste misure produrranno un risparmio stimato di circa 2 miliardi di euro a regime entro il 2035.

Il vero obiettivo è ridurre il numero di persone che escono dal lavoro prima dell’età di vecchiaia, fissata a 67 anni.

Non si alza formalmente l’età pensionabile, ma si costruisce un sistema che rende sempre meno conveniente, e sempre più raro, andarci prima.

Il Tfr e il silenzio-assenso

Dentro il maxiemendamento c’è anche una novità che guarda al futuro: dal 1° luglio 2026, per i neoassunti del settore privato scatterà il meccanismo del silenzio-assenso sul Tfr.

Se il lavoratore non esprime una scelta entro 60 giorni, il Tfr confluirà automaticamente nei fondi pensione. Una decisione che punta a rafforzare la previdenza complementare, ma che sposta ancora una volta il rischio sulle spalle dei singoli.

Il quadro che emerge

Messe insieme, queste misure raccontano una direzione precisa. L’età pensionabile diventa sempre meno una soglia chiara e sempre più un percorso a ostacoli.

Si lavora più a lungo. Si aspetta di più. Si ha meno margine di scelta. E chi aveva investito su strumenti come il riscatto della laurea scopre che le regole possono cambiare in corsa.

Il punto finale

La Manovra 2026 non annuncia una rivoluzione. Non proclama aumenti clamorosi dell’età pensionabile. Ma fa qualcosa di forse più efficace: sposta lentamente il confine, rendendo l’uscita anticipata un’eccezione sempre più rara.

E mentre il linguaggio resta tecnico, la sensazione per milioni di lavoratori è una sola: la pensione non è più un diritto con una data, ma un orizzonte che continua ad allontanarsi.

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