«Ma l’è prôpi un dièvel!», è proprio un diavolo, dissero così due contadine nascoste in una cascina che lo videro fuggire tra i boschi di Correggio con la rapidità di una lepre, lasciandosi alle spalle i tedeschi lanciati all’inseguimento. Era il 1944 e da allora Germano Nicolini (26 novembre 1919) è rimasto il “Comandante Diavolo”, nonostante la sua indole da eroe buono. Un appellativo che non ha perduto nemmeno quando ingiustamente, nel ’47, venne portato in galera con l’accusa di aver ucciso un sacerdote. Una storia quella del partigiano Germano Nicolini raccontata in una canzone che Luciano Ligabue, rocker originario di Correggio, ha scritto per i Modena Park. Una vicenda di cui si parla anche nel libro ‘Noi partigiani. Memoriale della Resistenza italiana’, prefazione di Carla Nespolo, edito da Feltrinelli. Un volume che mette insieme quattrocento testimonianze, tra cui quella appunto del “Comandante diavolo’, raccolte da Laura Gnocchi e Gad Lerner.
Resistenza, 25 aprile: Germano Nicolini il “Comandante Diavolo” cantato da Ligabue
«Mi considerano un pezzo della storia italiana. Può darsi. Quel che è sicuro che ho passato dieci anni in galera da innocente. Ma non ho smesso per un secondo di essere l’unica cosa che sono: un antifascista, un democratico, un partigiano resistente che doveva resistere», sono le parole di Germano Nicolini, perseguitato da quella che Simonetta Fiori su ‘Repubblica’ definisce una «giustizia ingiusta». Una storia che mostra l’ingratitudine e la diffidenza dei più: il rapporto non proprio pacifico che l’Italia alla fine della guerra ha avuto con i suoi resistenti. Germano Nicolini è riuscito a superare l’onta dell’umiliazione grazie ai compagni: «Si è cercato di infangare una pagina luminosa della nostra storia». Ed è proprio per questo che è impegnato ancora oggi a raccontare quanto gli è accaduto. La vicenda di un singolo, quella del ‘Comandante del Diavolo’, capo del terzo battaglione della 77esima Brigata Sap “Fratelli Manfredi”, che di fatto si porta sulle spalle la collettività, la memoria di un intero paese.
«Mi considerano un pezzo della storia italiana. Può darsi. Quel che è sicuro che ho passato 10 anni in galera da innocente»
Non era un assassino Nicolini, non lo è mai stato: «Se in molti credono che la Resistenza sia stata un fatto solo militare sbagliano, perché noi abbiamo preso le armi per difendere la popolazione». Anche ai tempi duri, quando alcune zone dell’Emilia diventarono il «triangolo della morte», Germano si è battuto perché non ci si abbandonasse alla rabbia: «Se si comincia a dire ‘ci facciamo giustizia da noi’, la violenza prende il posto dell’ingiustizia. E la democrazia è più importante della rappresaglia». Ha fatto tanto per l’Italia, per quella libertà che ci sta a cuore. È stato lui dopo la Liberazione ad organizzare la mensa del reduce e del partigiano, un unicum nel dopoguerra. Un posto dove resistenti ed ex fascisti repubblichini, a condizione che non avessero commesso reati, potessero mangiare assieme, condividere lo stesso pasto. Lo fece dopo essere stato nominato dagli americani reggente di Correggio, riuscendo a farsi prestare i soldi dalle famiglie benestanti, quelle stesse famiglie che avevano finanziato l’esercito del duce.
Resistenza 25 aprile, Germano Nicolini: «Si è cercato di infangare una pagina luminosa della nostra storia»
Poi l’accusa dell’omicidio di Don Umberto Pessino, parroco di San Martino, freddato da tre proiettili nel 1946. Con la colpevole complicità della Chiesa cattolica e del Pci, Germano Nicolini, che era diventato sindaco comunista di Correggio, viene processato e condannato. Non sceglie di espatriare, vuole dimostrare la sua innocenza. Per dieci anni resta in carcere: il Comandante Diavolo, quello stesso uomo che aveva sventato anni prima un attentato partigiano contro alcuni repubblichini nel carcere di Correggio, viene ritenuto colpevole. Esce dalla cella, ma con l’indulto. Avrebbe avuto dinnanzi a sé altri 12 anni da scontare dietro le sbarre: l’assoluzione piena solo nel 1994. Poi le scuse da parte dello Stato e la possibilità di riavere le mostrine militari, simbolo di appartenenza, ma soprattutto di eroismo. leggi anche l’articolo —> 25 aprile 2020, il messaggio di Mattarella: «Insieme, possiamo farcela, e lo stiamo dimostrando»