Il distanziamento sociale è stato il ritornello di questa pandemia. Ma perché sociale? Non doveva essere solo un distanziamento fisico? E come mai da fisico è diventato anche relazionale, dove c’è tanta paura degli altri, e anche un distanziamento emotivo, nel quale la gente sente una gran solitudine e un senso di abbandono?
Da quando è cominciata la pandemia, è stato subito evidente che il suo mezzo di trasmissione sono piccole gocce di saliva espulse da naso e bocca delle persone infette durante la respirazione o tossendo e starnutendo. Per evitare il contagio diretto, era consigliato di mantenere una distanza di almeno un metro tra una persona e l’altra, e indossare la mascherina, specialmente nei luoghi pubblici chiusi. Il virus sopravvive per qualche ora anche fuori il corpo umano e, per evitare il contagio indiretto, era consigliato indossare i guanti, oppure – meglio – disinfettare o lavare spesso le mani, e non toccarsi la bocca, il naso e le orecchie – almeno non prima di aver eseguito tali operazioni.
E fin qui va tutto bene. Sono norme sanitarie semplici e chiare. Condivise da tutti e adottate in vari altri paesi. In più, sono misure implementate anche nelle precedenti pandemie, come quella della SARS del 2003. Ci sono addirittura immagini che risalgono a 100 anni fa, durante l’influenza spagnola, di gente che indossava maschere e guanti.
Ma questa in corso è stata ben diversa delle altre pandemie. Insieme con il virus della malattia è circolato anche il virus della paura – trasmesso non tramite gocce di saliva, bensì tramite messaggi su Facebook, via radio e TV, e soprattutto via WhatsApp. Giravano milioni di messaggi sul virus. Molti di questi messaggi erano sensazionalisti, fatti per creare scalpore e paura. Tantissimi erano completamente falsi. Per non parlare, poi, delle diatribe mediatiche tra esperti del settore, con il risultato di confondere ancor più i comuni cittadini.
E mentre il virus del COVID-19 era invisibile, come lo erano i malati chiusi negli ospedali, nelle RSA o in casa, le persone “infette” dal virus della paura erano ben visibili. Erano sulla strada, in fila fuori i supermercati e farmacie, sui mezzi di trasporto pubblico. La loro paura era evidente – nessuno salutava, nessuno parlava, e non ci si guardava negli occhi. Era surreale questo “silenzio assordante”, questa mancanza di voci umane, l’ assenza del suono delle risate o di semplici sorrisi. Inoltre, l’assenza dei tipici rumori del traffico cittadino era angosciante, tanto da conferire un aspetto spettrale a città e paesini.
Durante il lockdown era consentito uscire per attività motorie e tanti ne approfittavano per correre o andare in bici. Normalmente questi tipi sportivi sono molto solidali tra di loro e si salutano quasi sempre qualora si incrocino. Ma a marzo e aprile tutti erano chiusi nel loro guscio. Per strada, evitavano il contatto visivo e spesso guardavano dall’altra parte.
Con grandi sacrifici, sembra che finalmente l’ emergenza medica stia rientrando, almeno nelle zone al di fuori della Lombardia. Ci sono meno casi di nuovi contagi, meno ricoverati nei reparti di terapia intensiva e, soprattutto, meno morti.
Ma il virus della paura rientrerà? Da alcune immagini della movida nelle grandi città, sembra di si. La gente, chiusa in casa per oltre due mesi, non vede l’ora di uscire, girare, incontrare amici e fare le cose “normali”, come andare al bar, nei parchi o mangiare una pizza fuori. Molti di loro senza mascherine o tenendole abbassate sul mento. Ma parlando con baristi, camerieri e commessi nei negozi, sembra ci sia una reazione quasi isterica. Si parla a voce troppo alta, ci si comporta come se il pericolo fosse ormai scampato, tanto da non sempre rispettare il distanziamento fisico. È forse ciò un modo di esorcizzare la paura?
Eppure, c’è ancora tanta gente che quando la incroci per strada evita lo sguardo altrui. Che scende dal marciapiede se incrocia qualcuno dall’altra parte. E poi ci sono tante persone, tra cui molti anziani o malati cronici, che escono poco o per niente. Anche quando non sono in condizioni di fragilità e più esposte al contagio, ma comunque talmente impaurite dopo mesi di bombardamento mediatico, da aver paura di un ritorno alla normalità. Seppur con tutte le cautele previste dalle attuali regole governative.
Perciò, sembrerebbe che il virus della paura continui a circolare e abbia cambiato qualcosa di profondo dentro di noi. Forse abbiamo capito che la nostra vita era piena di cose superflue, che il nostro stile di vita non era più connesso con valori morali, che i nostri rapporti sociali erano poco profondi; e inquinavamo aria, terra e acqua del nostro pianeta con troppe automobili, troppa plastica e troppo spreco di tutto, dal cibo ai vestiti.
E se fosse così? Chi potrebbe aiutarci a fare un “reset? E nel ridefinire le nostre vite? A dare un nuovo senso a parole come famiglia, vicinanza, solidarietà e umiltà; e a vivere una vita più semplice? Parole e valori che servono a superare le paure e il senso di isolamento.
I politici? Sono troppo occupati a distribuire colpe e conquistare punti nei sondaggi. Oppure i giornalisti? Molti sono sul libro paga della grande finanza e dell’industria che con la pubblicità finanziano canali TV e giornali. La loro principale preoccupazione, ormai, è “ripartire”, tornare alla normalità; spendere e consumare. Forse la Chiesa? Può essere, ma prima dovrebbe promuovere una grande riforma interna e morale. Oppure, e sarebbe auspicabile, il resto della classe intellettuale: filosofi, poeti, scrittori, accademici, insegnanti, artisti?
Sicuramente loro potrebbero essere i leader della nuova ideologia post-COVID, capace, si spera, di infondere nelle persone comuni la speranza e la volontà di cambiare l’attuale sistema economico – sociale, causa di tante ingiustizie ed esclusione dei più deboli.
Gli autori
Daud Khan vive tra Pakistan e Italia. Ha studiato alla London School of Economics, l’università di Oxford e all’Imperial College of Science and Technology di Londra. Ha lavorato come economista e consigliere per vari paesi e per enti come la Banca Mondiale e la FAO.
Marcello Caruso è uno scrittore e giornalista indipendente che vive in provincia di Latina.