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Inno di Mameli, la scelta di Mattarella: cosa non si può più dire

23/12/2025 09:37

Inno di Mameli, addio al sì: perché cambia

Una modifica apparentemente tecnica. Silenziosa. Passata quasi sotto traccia per mesi. Eppure capace di riaccendere un dibattito che tocca simboli, identità e politica. Al centro c’è l’inno nazionale, Il Canto degli Italiani, e quel “sì” finale che da decenni accompagna l’ultima strofa nelle cerimonie ufficiali.

Secondo quanto riportato da Il Fatto Quotidiano, un decreto firmato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella avrebbe disposto l’eliminazione dell’urlo conclusivo dopo il verso “l’Italia chiamò”. Una scelta che affonda le radici in un provvedimento formale, ma che ha finito per assumere un peso politico e simbolico ben più ampio.

Il decreto e la data che pochi avevano notato

Il decreto porta la data del 14 marzo 2025. È stato adottato su proposta della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 7 maggio 2025. Non un atto estemporaneo, dunque, ma un provvedimento istituzionale inserito in un percorso normativo già avviato.

A richiamare l’attenzione è stato un “foglio” dello Stato Maggiore della Difesa, datato 2 dicembre, che disciplina nel dettaglio le modalità di esecuzione dell’inno durante eventi e cerimonie militari di rilevanza istituzionale. Il documento dispone che, nella versione cantata, non debba più essere pronunciato il “sì” finale.

La disposizione dello Stato Maggiore della Difesa

La direttiva è firmata dal generale di divisione Gaetano Lunardo, capo del I reparto dello Stato Maggiore dell’Esercito. Il testo invita i comandi a dare la massima diffusione alla disposizione affinché venga applicata in modo uniforme in tutte le cerimonie ufficiali.

Secondo quanto emerge, l’obiettivo sarebbe quello di uniformare l’esecuzione dell’inno al testo considerato “originario” di Goffredo Mameli, così come previsto dalla legge che nel 2017 ha riconosciuto ufficialmente Il Canto degli Italiani come inno nazionale della Repubblica.

Il Quirinale e l’esecuzione “ufficiale”

Sul sito del Quirinale, l’inno è proposto nella versione del 1971 cantata dal tenore Mario Del Monaco. In quella registrazione, dopo il verso conclusivo, non compare alcun grido, ma solo la chiusura musicale.

Dal Colle filtra una linea chiara: non si tratterebbe di una censura né di una riscrittura simbolica, ma di un semplice adeguamento tecnico richiesto dalle bande musicali, per rispettare lo spartito e il testo riconosciuti a livello istituzionale.

Il “giallo” filologico sul famoso “sì”

Ed è qui che la questione si complica. Perché se nel testo inviato da Mameli a Michele Novaro il “sì” non compare, nello spartito musicale di Novaro risulta invece presente. Un dettaglio tutt’altro che marginale.

Secondo l’edizione critica curata da Maurizio Benedetti e pubblicata nel 2019, quel “sì” sarebbe stato aggiunto proprio dal compositore e non dal poeta. Un’aggiunta musicale, diventata nel tempo consuetudine popolare, più che parte integrante del testo letterario.

Una scelta tecnica che diventa politica

È su questo confine sottile che la vicenda ha iniziato ad assumere un significato politico. Non tanto per il contenuto del decreto, quanto per il contesto e per il valore simbolico dell’inno nazionale in una fase storica segnata da forti tensioni identitarie.

Il fatto che il provvedimento sia stato adottato su proposta del governo Meloni ha alimentato letture contrapposte. Da un lato chi parla di rispetto rigoroso della tradizione istituzionale. Dall’altro chi vede nella scelta un gesto che rischia di apparire come una sottrazione simbolica.

Simboli, consenso e percezione pubblica

L’inno nazionale non è solo una composizione musicale. È un rito collettivo, una forma di riconoscimento reciproco, un momento in cui la politica incontra l’emotività popolare.

Intervenire su uno di questi elementi, anche per ragioni tecniche, significa inevitabilmente esporsi a interpretazioni, polemiche e reazioni emotive. Ed è forse questo il vero cuore della vicenda: la distanza tra il linguaggio delle istituzioni e quello della percezione pubblica.

Una modifica silenziosa, diventata improvvisamente rumorosa. E che dimostra, ancora una volta, quanto i simboli contino più delle intenzioni che li accompagnano.

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