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Bambini in carcere, un dramma che deve finire

30/06/2020 19:50 - Aggiornamento 30/06/2020 19:52

Ci sono bambini che nascono e crescono in carcere. Lontani dal mondo. E non per colpa loro. In Italia le madri detenute che dividono la cella con i propri figli sono 34, e sembra assurdo che non si riesca a trovare una via alternativa a questa. Solo in Campania, si contano sette mamme e nove bambini, tutti privati del diritto all’infanzia. Una situazione degradante, che li costringe a una detenzione punitiva fin dai primi giorni di vita.

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Carcere femminile

Bambini in carcere, il dramma che deve finire

“Risulta davvero difficile pensare che non si riescano a trovare luoghi alternativi al carcere”, si legge nel rapporto annuale sulle condizioni di detenzione elaborato dall’associazione Antigone. I numeri non sono così eclatanti, ma abbastanza da far discutere: 34 madri dietro alle sbarre, con a seguito i propri bambini (40), costretti a crescere in un istituto penitenziario. Privati di ogni affetto, del diritto all’infanzia, sviluppano ovviamente dei traumi con cui poi dovranno convivere per sempre. Come sottolinea Francesco Caraudo, esperto di medicina penitenziaria e autore del libro “il medico degli ultimi”, infatti, “un bambino in carcere è un fatto intollerabile per l’opinione pubblica in quanto il carcere è un’istituzione punitiva. Resta facilmente intuibile che il carcere appare come l’ambiente più insano dal punto di vista dell’igiene mentale e dello sviluppo fisico per un bambino”.

La realtà però è questa: tra l’Istituto di Lauro e quello di Salerno, i due che in Campania sono attrezzati per ospitare anche i più piccoli, risiedono sette detenute madri e nove bambini. Un totale di 16 persone che non vengono considerate altro che un numero per il bilancio che periodicamente il Ministero della Giustizia stila per fare il punto delle situazione penitenziaria. Anche con il lockdown e la crisi sanitaria, quasi tutte le detenute e i loro bambini sono state costrette a rimanere nelle loro celle. Nonostante tutto. Su trentaquattro, infatti, solo una ha avuto la possibilità, insieme ai suoi due bambini, di lasciare la prigione.

Bambini in carcere, negato il diritto all’infanzia

Alcuni bambini, quindi, crescono conoscendo una sola realtà: quella del carcere. Come confermano alcuni studi, questo crea dei veri e propri traumi nei più piccoli. Per esempio, le prime parole che imparano a pronunciare sono “apri”, “fuori”, oppure “aria”. La prigione è l’unico mondo che conoscono, insieme agli ambienti limitati, alle restrizioni, alle guardie. Un mondo in cui non c’è spazio per giocare con gli altri bambini, per scoprire la natura. Per correre. “In carcere il bambino subisce inerarrabili costrizioni poiché vive e cresce secondo i tempi e i ritmi, i suoni e gli odori della prigione. L’ambiente è innaturale, confinato da una serie successiva di muri, sbarre, porte e cancelli”, spiega Ceraudo. E di conseguenza si abituano anche alle persone, ai gesti che caratterizzano le prigioni. Tramite altri studi, inoltre, è stato dimostrato come il rischio di devianza sia più altro per quei bambini che hanno vissuto i primi anni di vita in carcere con la propria mamma. E non è difficile comprendere il perché.

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Una legge del 1975 concede alle madri detenute di non separarsi dai propri figli

La possibilità di lasciare i figli tra le braccia delle mamme detenute trova le sue radici in una legge del 1975. Varata con lo scopo di evitare, o per lo meno ritardare, il distacco dei piccoli dalla propria madre, si è sviluppata in una vera e propria detenzione anche per i neonati. La 62 del 2011, poi, recante modifiche in materia di detenute madri, sono stati introdotti degli istituti volti a favorire il rapporto fra madre e figlio. Si tratta di case famiglia protette e istituti di custodia attenuata per le detenute madri (Icam). Il dramma dei bambini in carcere non è però risolto. E questo rischia di creare degli effetti devastanti e permanenti. “Maternità e reclusione sono due condizioni in conflitto tra loro, e la seconda comunque sembra negare la possibilità alla prima di esprimersi, se non in situazioni di estremo disagio”, sottolinea Ceraudo.

In questa situazione così già di partenza drammatica, che risulta essere borderline tra la scelta di allontanare un figlio dalla propria madre e quella di costringerlo a crescere in carcere, sicuramente si potrebbero migliorare gli ambienti. Colorare le celle, riempire gli asili di giocattoli, organizzare delle attività. Almeno finché non si riuscirà a evitare situazioni del genere. Secondo Careaudo, infatti, “il vero obiettivo da perseguire non è il miglioramento dell’ambiente nel quale il bambino vivo, ma neutralizzare sin dall’inizio l’operazione carceraria che costringe il bambino a vivere in un carcere vero e proprio”. >>Tutte le notizie di UrbanPost

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