C’è un dettaglio che colpisce più delle accuse, più dei video virali, più delle reazioni social: la sensazione di silenzio. Il “caso Signorini” rimbalza ovunque online, ma nei telegiornali sembra restare spesso sullo sfondo, trattato con prudenza, rapidità, o relegato a poche righe.

Attenzione: qui non si tratta di emettere sentenze. È fondamentale ricordarlo. Esiste un’indagine, esistono querele, esistono versioni contrapposte e un principio che vale per chiunque: la presunzione d’innocenza. Ma proprio perché la giustizia farà il suo corso, vale la pena analizzare l’altra metà della storia: come reagiscono media e pubblico, e cosa rivela questa vicenda sul nostro rapporto con consenso, fama e potere.
Che cosa sta succedendo: i fatti fin qui
La Procura di Milano ha aperto oggi un fascicolo a carico del giornalista e conduttore tv Alfonso Signorini dopo la querela presentata dall’ex concorrente del “Grande Fratello” Antonio Medugno. I reati iscritti nel fascicolo sono violenza sessuale ed estorsione. Si parla di “atto dovuto” in seguito alla denuncia depositata nei giorni scorsi (querela del 24 dicembre) e finita sul tavolo della pm Letizia Mannella. Medugno è assistito dagli avvocati Cristina Morrone e Giuseppe Pipicella.
Il quadro si intreccia con un altro fascicolo: quello che riguarda Fabrizio Corona, indagato per revenge porn sulla base della denuncia presentata da Signorini. Nello stesso contesto investigativo sarebbero stati sequestrati foto, video e chat, e questo avrebbe contribuito a innescare ulteriori sviluppi e denunce.
Nelle stesse ore, anche l’ex concorrente Gianluca Costantino starebbe valutando un’azione giudiziaria analoga, assistito dall’avvocato Leonardo D’Erasmo.
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Dal lato di Signorini, i legali hanno respinto con forza la ricostruzione accusatoria. L’avvocato Domenico Aiello ha parlato di “ricostruzione balorda” e di una vicenda in cui, a suo dire, alcuni sarebbero “disposti a tutto” per guadagnare denaro. Inoltre, i legali di Signorini hanno comunicato la decisione di sospendere cautelativamente gli impegni editoriali con Mediaset per fronteggiare la situazione e il riverbero mediatico.
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Il punto che spacca: perché l’attenzione dei TG sembra “più bassa” del rumore social?
Qui non serve complottismo. Basti vedere i numeri di Falsissimo per capire come sia un caso tra i più discussi degli ultimi 10 anni: oltre 10 milioni di visualizzazioni racimolate dai due video di Fabrizio Corona, senza contare le milioni di views di tutte le clip circolate online successivamente. Ma nei tg tutto tace.
In questi casi si incrociano almeno tre fattori che rendono la TV tradizionale più cauta.
1) Il rischio legale e la prudenza editoriale
Quando ci sono querele, contro-querele e fascicoli in corso, molte redazioni scelgono una linea minimal: riportare il fatto “nudo e crudo”, evitare commenti, evitare approfondimenti. È una strategia di contenimento: meno spazio, meno rischio.
2) Il cortocircuito “spettacolo-giustizia”
Il caso nasce dentro un ecosistema televisivo. Parlare troppo di un conduttore e di un reality significa, per molti, scendere in un terreno scivoloso: quello in cui intrattenimento e cronaca giudiziaria si contaminano. La TV spesso preferisce non amplificare ciò che percepisce come “autolesivo” per il proprio sistema. O meglio, in questo caso non succede.
3) La narrativa già pronta dei social
Online, la storia è già confezionata: clip, reaction, schieramenti, meme, sentenze istantanee. I TG arrivano dopo e trovano un racconto già saturato. Il risultato? A volte si limitano a certificare l’esistenza dell’indagine, senza entrare nel merito del “perché” la vicenda sta incendiando la discussione pubblica.
Il tema che molti evitano: il doppio standard quando le vittime sono uomini
Il passaggio più duro (e più rivelatore) di questa storia sta nelle reazioni. In rete si legge spesso un sottotesto tossico: “Ma dai, non è successo niente”, “Se ci sei andato anche tu allora te la sei cercata”, “Non esageriamo”. Frasi che, se il presunto scenario fosse stato invertito — una figura di potere eterosessuale e aspiranti concorrenti donne — avrebbero probabilmente generato un’ondata diversa, più immediata e più netta.
Questo non significa dire che un genere “vale più dell’altro”. Significa osservare un fatto culturale: quando l’uomo è vittima, la società tende più facilmente a ridicolizzare, minimizzare, spostare la colpa su di lui. E quando succede, il consenso diventa un dettaglio invece che la questione centrale.
Se vogliamo che la cultura del consenso sia una cosa seria, deve essere seria sempre: quando la vittima è donna, quando è uomo, quando è famosa, quando non lo è. Altrimenti resta uno slogan.
Il “mito del reality” come scorciatoia di vita
Un altro elemento che merita attenzione è l’idea — ripetuta spesso nel dibattito — che entrare in un reality sia “il sogno di tutti”. Non lo è. Ma è vero che per una parte di pubblico può diventarlo: fama rapida come ascensore sociale, riconoscimento come sostituto della realizzazione personale, visibilità come unica prova di valore.
Quando una società trasforma la notorietà in una valuta emotiva, si crea un mercato in cui molti sono disposti a tutto pur di “passare il provino”. Questo non assolve nessuno e non condanna nessuno: però aiuta a capire perché storie così esplodono e perché certi contesti possono diventare vulnerabili a dinamiche di pressione, ricatto emotivo o manipolazione.
Perquisizioni, sequestri e tempismo: perché colpiscono così tanto l’opinione pubblica
Nelle conversazioni online ritorna spesso un confronto implicito: quando si agisce con rapidità e quando no. In molti casi di cronaca del passato, l’opinione pubblica ricorda ritardi, prove disperse, errori, lentezze. Qui invece la percezione è di un’azione veloce: sequestri, materiale acquisito, fascicoli che si incrociano.
È una percezione che può essere parziale, ma racconta un sentimento diffuso: l’idea che non tutti i casi ricevano la stessa intensità investigativa o la stessa urgenza mediatica. E quando questa sensazione cresce, succede una cosa pericolosa: la fiducia si sposta dalla giustizia ai personaggi più rumorosi del web.
Il paradosso più inquietante: “ci fidiamo più del gossip che delle istituzioni”
Questo è il punto che dovrebbe interessare davvero chi fa informazione: non “chi ha ragione” (lo diranno le indagini), ma perché una fetta di pubblico sente più credibile un narratore scandalistico rispetto a un percorso istituzionale fatto di tempi, garanzie e verifiche.
La risposta non è una sola, ma include: sfiducia accumulata, rabbia sociale, fame di storie semplici, desiderio di colpevoli immediati. E anche una realtà: il web premia chi parla “come se sapesse”, mentre la giustizia può parlare solo quando ha atti e riscontri.
Che cosa dovremmo pretendere adesso (senza tifoserie)
Se vogliamo evitare l’ennesima guerra tra fan e haters, ci sono tre richieste ragionevoli che chiunque può fare:
- Chiarezza e verifica: distinguere tra accuse, prove, ricostruzioni e opinioni.
- Rispetto per le persone coinvolte: senza gogna e senza minimizzare.
- Coerenza culturale sul consenso: il consenso non è negoziabile, e non cambia valore in base al genere.
Il caso Signorini oggi è un procedimento in corso e un terremoto mediatico. Ma domani potrebbe diventare un test: non solo per i tribunali, anche per noi. Per capire se siamo capaci di parlare di consenso senza doppi standard, e di pretendere informazione senza trasformarla in linciaggio.
Facci sapere cosa ne pensi: secondo te i TG stanno facendo bene a parlarne poco, o stanno lasciando spazio a una narrazione fuori controllo?
