Lo stato d’emergenza è iniziato lo scorso 31 gennaio. Dal 9 marzo al 18 maggio l’Italia si è chiusa nel lockdown. Abbiamo affrontato la prima, terribile, ondata di coronavirus quando ancora di questo non si conosceva nulla. Non si sapevano gli effetti, i tempi, le cure. Niente. Arrivata l’estate, poi, sembrava che la situazione potesse ritenersi sotto controllo. Ora ci stiamo ricadendo con tutte le scarpe, come si suol dire. Eppure si è parlato tanto di una possibile seconda ondata di coronavirus: i virologi hanno tentato di mettere in guardia i politici più e più volte. Allora perchè, dopo otto mesi, siamo ancora la punto di partenza? Perchè durante il time out che il virus ci ha concesso, le Istituzioni non sono state in grado di prepararsi in caso di un significativo ritorno?
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Coronavirus seconda ondata, perchè il governo non si è preparato
Perchè evidentemente il motto è rimasto lo stesso della quarantena: “Armiamoci e partite”. Quando Conte dice che dipenderà tutto dal “comportamento degli italiani”, infatti, afferma proprio questo. Esattamente come quando, durante il lockdown, dichiarava di riporre tutte le sue speranze nel senso civico delle persone per evitare il contagio. Dopo tutto questo, però, possiamo dire con chiarezza che no: non può dipendere solo dai cittadini. Dall’inizio dell’emergenza sono passati otto mesi. Otto mesi di casi positivi, di tamponi, di morti e di terapie intensive straripanti di pazienti. Smettiamola di dire che è tutto solo nelle mani degli italiani.
E’ vero ed è in qualche modo giustificabile: all’inizio il governo non aveva idea di come muoversi. Ma passata la prima fase, ciò che è certo è che non avrebbe mai e poi mai dovuto farsi trovare impreparato in un secondo momento. E far pagare il conto proprio agli italiani, con delle mezze misure che altro non fanno se non regalargli un biglietto di sola andata verso la povertà.
Ogni giorno scaliamo la classifica dei casi positivi e, soprattutto, dei ricoveri. All’ospedale Spallanzani di Roma la capienza è del 60/70%, a causa l’aumento dei ricoveri nell’istituto. Ma è tutto sommato gestibile, perchè lì è stato fatto un lavoro di implementazione e riorganizzazione dei posti letto messo in opera proprio per prepararsi all’eventualità di una seconda ondata. Il nosocomio, tra l’altro, ha deciso di accettare da oggi soltanto pazienti Covid: una misura che guarda avanti, necessaria per garantire la disponibilità dei posti letto per l’emergenza Sars Cov-2. Questo, però, non significa essere pronti: non sono comunque sufficienti i medici rianimatori, i ventilatori non si sa dove siano finiti, così come i tanto attesi 3000 posti in più per il quale il governo ha stanziato dei fondi.
Coronavirus seconda ondata, il rimpallo delle responsabilità
Posti che, però, a oggi rimangono ancora da realizzare. Qual è la conseguenza? Che molte regioni sono già vicine alla saturazione dei posti in rianimazione, se si considerano sia quelli strutturali che quelli aggiunti e riservati ai pazienti Covid-19. E di chi è la colpa? Beh, dell’altro. C’è chi dice del governo, chi dell’ufficio dell’alto commissariato, chi delle Regioni. Probabilmente di tutti.
Negli ultimi mesi centinaia di ventilatori polmonari sono stati spediti un po’ ovunque. Il problema è che non è ben chiaro dove siano finiti: “Attendiamo risposte in tempo reale dalle Regioni”, ha affermato il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia. “Prima del Covid la Campania aveva 335 posti letto di terapia intensiva. Il governo attraverso il commissario Arcuri ha inviato 231 ventilatori per le terapie intensive e 167 per le sub intensive. Oggi risultano attivati 433 posti, devono essere 566”. Il fatto però che non si sappia dove sono finiti questi ventilatori, non giustifica il farsi trovare impreparati. Anzi: non è altro che sinonimo di incompetenza.
Se Boccia ha lasciato la patata bollente nelle mani di Arcuri, il commissario straordinario a sua volta ha effettuato il rimpallo sulle Regioni: “In questi mesi alle Regioni abbiamo inviato 3.059 ventilatori polmonari per le terapie intensive, 1.429 per le subintensive. Prima del Covid le terapie intensive erano 5.179 e ora ne risultano attive 6.628 ma, in base ai dispositivi forniti, dovevamo averne altre 1.600 che sono già nelle disponibilità delle singole Regioni ma non sono ancora attive. Chiederei alle Regioni di attivarle. Abbiamo altri 1.500 ventilatori disponibili, ma prima di distribuirli vorremmo vedere attivati i 1.600 posti letto di terapia intensiva per cui abbiamo già inviato i ventilatori”, ha spiegato.
Vergallo: “Allerta in tutte le Regioni, si rischia di tornare alla prima fase dell’emergenza”
Secondo il monitoraggio effettuato da Ministero della Salute e Iss, alcune regioni potrebbero superare la soglia del 30% delle terapie intensive occupate da pazienti Covid nel prossimo mese. Si tratta di Abruzzo, Campania, Emilia Romagna, Liguria, Lombardia, Puglia, Sardegna, Toscana, Umbria e Valle D’Aosta. L’Umbria, per esempio, nella prima fase della pandemia era riuscita a contare un numero minimo di contagi e nessun problema negli ospedali. Oggi è tra le Regioni più a rischio: ieri, infatti, l valore dell’indice di trasmissibilità Rt era sopra 1,4, con il record assoluto di casi positivi accertati nella regione in un solo giorno, 263, l’87% in più del dato di mercoledì, secondo quanto riporta il sito della Regione (4.012 i contagi dall’inizio della pandemia).
“Ci troviamo in una situazione di allerta in tutte le Regioni perchè si rischia, nel breve termine, una saturazione dei posti Covid se il trend dei contagi non si modificherà”, ha dichiaro il presidente nazionale dell’Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri italiani-emergenza area critica Alessandro Vergallo. Questo perchè nelle terapie intensive “la pressione sta crescendo e iniziamo a vivere la paura che si possa tornare alla situazione drammatica della prima fare epidemica”.
Coronavirus seconda ondata, Ricciardi: “Abbiamo indicato chiusure mirate”
“Data la situazione molto grave di circolazione del virus, abbiamo indicato chiusure mirate nelle regioni con altissima circolazione del Sars-Cov2 finalizzate a consentire lo svolgimento delle attività scolastiche e produttive. Le chiusure, nelle zone dove l’indice di contagio è superiore a 1, dovranno riguardare punti di aggregazione come circoli, palestre ed esercizi commerciali non essenziali. Mentre lo smart-working dovrebbe diventare la forma ordinaria di lavoro in tutto il Paese. Punto cruciale è la sicurezza nei mezzi di trasporto pubblico e il loro rafforzamento”, ha commentato invece Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute per l’emergenza Covid e ordinario di Igiene generale e applicata alla Facoltà di medicina della Cattolica di Roma.
“Le Asl- ha aggiunto poi- non sono più in grado di tracciare i contagi, quindi la strategia di contenimento del virus non sta funzionando. Questo è dovuto a due fenomeni in atto in molte regioni: il mancato o ritardato rafforzamento dei Dipartimenti di prevenzione (basso numero di medici igienisti a disposizione) e ai migliaia di focolai in atto. La situazione è molto grave, le regioni stanno andando verso la perdita del controllo dei contagi. Il contact tracing non sta funzionando né manualmente, con le interviste ai positivi al virus sui loro contatti, né tecnologicamente con l’app Immuni”.
Tante idee, tanti commenti, tante contraddizioni: l’unica cosa certa è che il governo aveva il compito, e l’obbligo, di farsi trovare preparato. Invece ha fallito, e a pagare saranno gli italiani. Gli stessi che sono stati “tanto bravi” a rispondere al lockdown, e che invece oggi si ritrovano al punto di partenza per l’incompetenza statale. >>Tutte le notizie di UrbanPost