“L’incredibile storia de l’Isola delle Rose”, dalla regia di Sydney Sibilia, sta spopolando su Netflix e riaccendendo la curiosità sulla storia dimenticata dell’ingegnere Giorgio Rosa. Un personaggio quanto meno eccentrico e visionario, scomparso nel 2017. La pellicola di Sibilia, prodotta da Groenlandia, racconta l’impresa di un ingegnere talentuoso e sognatore, la cui sete di libertà lo porta a costruire un’isola di acciaio al largo di Rimini – fuori dalle acque territoriali – e a dichiarare la propria indipendenza dallo Stato italiano nel 1968.
Il film rende senza dubbio l’aspirazione di libertà che mosse l’ingegnere Giorgio Rosa e la sua squadra nell’impresa. Come è naturale, però, la pellicola “leviga” la realtà, sopprimendo in parte le controverse ideologie del protagonista e semplificando molti passaggi. Sibilia offre una versione romanzata e romantica della vicenda: ad esempio, c’è l’amore per Gabriella (Matilda De Angelis) – e il bisogno di dimostrarle il valore delle proprie idee – alla base del progetto dell’isola di Giorgio Rosa (Elio Germano). La vicenda raccontata da Giorgio Rosa stesso è differente.
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L’Isola dell Rose, la storia vera
“La realtà è che non avevo sponde politiche e non fui abbastanza furbo da rivolgermi alla mafia o alla massoneria”. La visione a dir poco utilitaristica – e meno romantica – di Giorgio Rosa si legge anche in questa sua considerazione, riportata da CorriereRomagna.it, che intervistò il fondatore dell’isola nel 2008. A distanza di 40 anni dall’accaduto, Giorgio Rosa parlava ancora con amarezza dell’“occupazione militare non giustificata dal diritto internazionale” con cui si risolse l’avventura indipendentista dell’Isola delle Rose. “Per tutto questo tempo sono stato ignorato, ma è quello che desideravo. L’isola rivive ogni tanto solo nell’interesse di qualche filatelico, ma è meglio così: sono rimasto disgustato, l’epilogo è stato avvilente”, raccontava Rosa a CorriereRomagna.it.
L’idea della costruzione dell’isola
CorriereRomagna.it definisce Giorgio Rosa “uomo di destra, anarco-capitalista ante-litteram”. Alla base del progetto di Rosa, infatti, si trova precisamente la prospettiva di guadagno, libero da qualsiasi vincolo e imposizione statale. Rosa era nato nel 1925 a Bologna e, dopo la guerra, aveva iniziato a sfruttare la laurea in ingegneria. Dopo aver lavorato in cantiere a Bologna e aver avuto vari contatti con la burocrazia, Rosa aveva constatato che gli USA avevano ridotto in schiavitù l’Italia. “Non potevi fare nulla che i politici non volessero, e questa schiavitù ogni giorno di più ti soffocava. […] A questo punto, dopo tutti i morti ammazzati in Italia nel dopoguerra, io, che sono e sono sempre stato libero, pensai che un’unica prospettiva era di andare in un paese indipendente dove gli intelligenti potessero comandare e gli idioti servire.
Ma due ragioni si opponevano al mio pensiero. Quasi tutti gli stati sono abbarbicati alle religioni ed alle sette e, quindi, prima o poi, ti sottomettono. Ed in più, mi dispiaceva allontanarmi dalla mia Patria, il cui culto, nonostante tutto, era radicato; dalla mia città, dove ero nato; dalla mia famiglia, che, speravo, fosse il nucleo di sopravvivenza. Ecco che sorse in me l’idea di fare un’isola dove fosse la vera libertà, dove le persone intelligenti potessero procedere e dove gli inetti fossero cacciati. Ed ecco che studiando la situazione trovai la possibilità di costruire un’isola”. Queste le opinioni di Rosa tratte dal Memoriale “Il fulmine ed il temporale di ‘Isola delle Rose'” di Giorgio Rosa e riportate da RiminiSparita.it.
La costruzione della piattaforma
Così Rosa consultò vari Procuratori della Repubblica, magistrati, ufficiali della Marina e professori, ottenendo rassicurazioni sulla legalità del suo piano. “Ero dalla parte della ragione – raccontò Rosa. Ebbi la rassicurante consulenza del professor Angelo Sereni, un’autorità assoluta del Diritto internazionale, con una cattedra all’Hopkins centre dell’università di Baltimora. Sì, nell’isola che verrà, fuori dalle acque italiane, sentenziò, si potrà aprire un locale pubblico senza nessuna autorizzazione, quello che è sulla piattaforma non è soggetto a dogana, ma non si potrà esportare sennò è contrabbando”.
Per la costruzione del suo territorio indipendente, Rosa scelse Rimini dove, in nome del turismo, allora più che mai, tutto sembrava possibile. Giorgio Rosa, insieme a Gabriella Chierici (che fu sua moglie dal 1960), fondò la S.P.I.C. (Società Per Iniezioni di Cemento). Nel 1958 iniziarono i sopralluoghi al largo di Rimini, fino a che nel 1960 il punto adatto, chiamato “Z”, fu identificato. La struttura fu saldata, completata, e trasportata sul punto “Z” il 31 di luglio. I lavori per l’armamento della struttura continuarono per circa due anni fino a che, il 20 agosto 1967, l’isola fu aperta al pubblico. L’area della piattaforma era di 400 metri quadri.
L’Isola delle Rose: “Assoluta manifestazione di libertà”
“La mia idea era farne un qualcosa di libero. L’ho pensata come una assoluta manifestazione di libertà: credo nella libertà, nella possibilità di autodecisione di ognuno. Sono convinto che solo nella libertà c’è la possibilità di incrementare l’industria, le idee, qualunque cosa. Volevo sfuggire alle imposizioni fiscali e alla burocrazia. E le cose da allora, oserei dire, sono peggiorate. Quanto all’Italia, io sono nato in periodo in cui la nazione era nazione: per me la patria è finita l’8 settembre del ’43. Non vado a votare e mi tengo alla larga dalla politica”. Queste le contraddittorie parole di Giorgio Rosa sulla sua visione dell’Isola.
1 maggio 1968: l’indipendenza
Il 1 maggio 1968 l’Isola delle Rose si dichiarò indipendente dall’Italia. “L’isola da più di un anno era diventata una meta turistica, venivano, facevano il pic-nic, attraccavano con i motoscafi […]. Ma era ora di andare avanti, e non solo con i lavori. Il primo maggio del 1968, così, io e il gruppo di amici che mi avevano aiutato, organizzammo il primo consiglio dei ministri sull’isola. Ci dividemmo sia gli incarichi che le responsabilità di governo, l’ufficializzazione fu successiva”.
Rosa scelse come lingua ufficiale l’esperanto, una lingua artificiale di grande successo negli anni ’60. Nel 1965 si era tenuto a Rimini il 36° Congresso Nazionale della FEI, la Federazione Esperantista Italiana. In esperanto, lo stato si chiamava “Libera Teritorio de la Insulo de la Rozoj”. “Allora andava parecchio, era bello immaginare una lingua comune e sembrava a una possibilità concreta. Dava un afflato internazionale (chiedemmo anche l’affiliazione all’Onu prima che gli eventi degenerassero), e rappresentava una diversificazione. Gli esperantisti erano entusiasti: fornirono ogni possibile appoggio. Inoltre poteva essere un’attrattiva: una nazione dove si parlava un’altra lingua. Mi misi a studiarla”, spiegò l’ingegnere.
La Costituzione, il governo e la popolazione dell’Isola
La Costituzione, il cui primo dei nove articoli scritti in esperanto è dedicato alla collocazione geografica (lungo l’ideale linea retta che congiunge Torre Pedrera a Pola, a 12 chilometri dall’Italia e 120 dalla Jugoslavia), è sottoscritta dai sei governanti. Antonio Malossi era a capo del dipartimento presidenza. Maria Alvergna presiedeva il dipartimento Finanze. C’erano poi il dipartimento degli Interni, dell’Industria e del Commercio, delle Relazioni e degli Esteri. L’Isola delle Rose adottò ache un inno nazionale, il “Coro dei marinai norvegesi” dalla 1° Scena del 3° Atto dell’Opera Romantica “Der fliegende Holländer” (“L’Olandese volante“) di Richard Wagner.
Pietro Bernardini, naufragato nell’Adriatico e approdato sulla piattaforma di Rosa, divenne l’unico abitante stabile, e insieme ai coniugi Luciano Ciavatta e Gianfranca Serra gestiva le prime attività. “C’era già una popolazione, praticamente in pianta stabile composta da tre persone, una lingua, una costituzione, quando scattò la repressione”, lamentava Rosa.
L’occupazione dello Stato Italiano
La fondazione dello Stato da parte del presidente Rosa fu vista dall’Italia come uno stratagemma per evadere le tasse (quale effettivamente era), supponendo però che si trovasse in acque territoriali italiane. 55 giorni dopo la dichiarazione d’indipendenza, martedì 25 giugno 1968 alle 7 del mattino, una decina di pilotine della Polizia con agenti della DIGOS, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza circondarono l’isola e la occuparono. Ne presero possesso senza alcun atto di violenza, con un’azione ai limiti del diritto internazionale, non contestando alcun reato o illecito, né violazioni alcune sulle leggi di polizia doganale, fiscale, sanitaria o di immigrazione. All’isola fu vietato qualunque attracco, e non fu consentito a Pietro Bernardini, unica persona presente al momento sulla piattaforma, di sbarcare a terra. Il Governo della Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose inviò un telegramma al Presidente della Repubblica Italiana Giuseppe Saragat per protestare “la violazione della relativa sovranità e la ferita inflitta sul turismo locale dall’occupazione militare”, ma fu ignorato.
A fine gennaio del 1969 la Marina Militare posò l’esplosivo sulla piattaforma per la detonazione, che avvenne a febbraio. Sui piloni vennero posizionati 120 kg di esplosivo per ognuno, senza riuscire nell’intento di demolirli. I lavori per la demolizione andarono avanti fino a circa metà aprile. Il Consiglio di Stato deliberò infine che l’Isola si era resa colpevole di “intralcio alla navigazione”.
La fine dell’Isola delle Rose
“Ancora oggi non trovo una ragione a quella reazione eccessiva. Parlarono di sicurezza. Falso. La perizia dell’ingegnere Giuseppe Lombi, per il tribunale, dimostrò che la struttura poteva sopportare senza conseguenze altri cinquanta piani. Impedimento alla navigazione? C’erano autofono e fanali, era conosciuta ai naviganti. Puri pretesti. La libertà faceva paura”, disse Rosa. Il governo dell’Isola delle Rose in esilio resistette compatto per qualche tempo. La sua unica attività, oltre alla lunga serie di ricorsi, fu l’emissione di nuove serie di francobolli, dedicati all’occupazione. Su questi, vi è l’immagine dell’esplosione e la frase latina Hostium rabies dirui, (La violenza del nemico distrusse), frase che appariva su francobolli propagandistici emessi dalla Repubblica sociale italiana nel ’44, scellta che dice tanto sul pensiero di Rosa.
A Rimini, molti albergatori manifestarono il disappunto per la demolizione della piattaforma, che rimaneva un’attraente meta turistica. “Seppi di una marcia alla quale erano presenti circa duemila riminesi. Sul Carlino lessi poi che al momento della distruzione erano comparsi manifesti listati a lutto: alcuni operatori turistici della riviera lamentavano la scomparsa della piattaforma indicata come elemento di notevole richiamo turistico”, raccontò Rosa.
Rosa: “Ci fecero pagare anche la demolizione”
Rosa spiegò le motivazioni del governo, secondo lui: “Il nostro grande nemico, mi è stato detto, fu Paolo Emilio Taviani (politico democristiano, ndr). E’ tutto partito da lui, quando era ministro dell’Interno. Poi il suo successore ha proseguito l’opera. La Democrazia cristiana e la Chiesa, si disse, non potevano tollerare l’iniziativa. Si mettevano in giro voci sulla presenza di donnine, spogliarelli, progetti di radio e tv clandestine che in realtà ci furono proposte ma non ci interessavano, della costituzione di basi spionistiche, della possibilità di divorziare”. “Non provo nostalgia per l’isola, sinceramente”, disse Rosa interpellato da CorriereRomagna.it. “Non ci penso proprio, Il sogno dell’isola? Ci fecero pagare anche la demolizione. Meno ne parlo meglio sto. Dalla vicenda, comunque, ebbi un certo ritorno professionale anche se poi gli unici progetti di utilizzo del mio brevetto (un trampolino per tuffi al largo della Tunisia e un albergo su acque italiane in Veneto) non si concretizzarono mai”. >> Tutte le notizie di spettacolo