Altro che lockdown a Milano. Inutile girarci troppo attorno, lo smart working non piace a tutti. Lo strumento, raccomandato dalla politica, per far fronte all’emergenza Coronavirus, continua ad essere largamente ignorato dalle piccole aziende private. Non tutte le società che l’hanno sperimentato durante la prima ondata se ne sono innamorate, tant’è che a settembre, quando si aveva l’illusione che il Covid fosse superato, tante hanno richiamato in ufficio i propri dipendenti. A denunciare questa scomoda realtà “Bussines Insider”, che ha riportato i dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. A settembre sono rientrati fisicamente in ufficio circa un milione e mezzo di dipendenti, sui sei milioni e mezzo che facevano lavoro agile nei picchi della pandemia. Dunque circa il 23%.
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Milano lockdown come no, il «finto» smart working nelle zone rosse: tanto è “consigliato”
Ma perché? Diciamo che i benefici per l’ambiente e la salute, come pure i chiari risparmi economici, non hanno persuaso la maggior parte dei manager, convinti ancora che sia da tenere maggiormente in conto il numero di ore alla propria scrivania, anziché la produttività. Per la serie: «Da casa non lavori, ti devo controllare!». Un rapporto quello tra datore di lavoro e dipendente basato non proprio sulla fiducia, verrebbe da dire, avvallato pure dalle dichiarazioni di personaggi pubblici. Tra i tanti, il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, che a metà giugno ha detto «è il momento di tornare a lavorare, perché l’effetto grotta per cui siamo a casa e prendiamo lo stipendio ha i suoi pericoli». Perché come diceva Einstein: «È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio».
Le esperienze dei dipendenti riportate su “Business Insider”
Sabina Pignataro ha dedicato su “Business Insider” un “capitolo” al finto smart working di Milano. In questi giorni, nella zona rossa, come scrive la giornalista, Luca è costretto ad andare in ufficio anche se lavora nel marketing di un’azienda di sanitari. Per arrivare in Piazza San Babila deve fare ben 14 fermate di metropolitana. Ha chiesto di lavorare da casa, ma il suo datore non ha voluto sentire ragioni: «La metropolitana non è un mezzo di trasporto rischioso: è stata ridotta la capienza. Niente scuse». Non meno rosea la situazione di Alessandra, che si occupa di contabilità e buste paghe. Per lei un tragitto in macchina e poi 11 fermate di tram, il 14. «È facoltà dell’azienda decidere di attivare lo smart working. Il Dpcm ci sollecita ma non non ci obbliga», le hanno risposto dall’ufficio del personale. Stessa cosa per Lucia, dipendente in un’agenzia di comunicazione di piazza Cairoli. «Si va avanti come prima del Dpcm: una settimana da casa, una in presenza». Il Dpcm del 3 novembre scorso si limita a “raccomandare” lo «smart working», «qualora le attività possano essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza». Questo vuol dire che i datori di lavoro di Luca, Alessandra e Lucia sono nel giusto. Ma il buon senso? Con l’aumento esponenziale dei contagi il buon senso dove lo mettiamo? Leggi anche l’articolo —> Campania zona rossa, Paolo Mieli: «Da Napoli aspettiamoci “Gomorra”», la “carta segreta”