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Umberto Mormile, la ‘ndrangheta e i servizi segreti: dopo 31 anni ancora nessuna verità

11/04/2021 11:30 - Aggiornamento 12/04/2021 10:10

di Chiara Caraboni e Andrea Monaci – “Io non sono dei servizi”. Cinque parole. Cinque parole sufficienti per far esplodere sei colpi di pistola. La morte di Umberto Mormile si può riassumere così. Con queste cinque parole. Ma per capirla per davvero bisogna ampliare l’angolo di osservazione, analizzare ogni oscuro dettaglio che, negli ultimi 31 anni, è emerso. Perché la storia di Umberto Mormile è la storia di una vittima innocente di mafia, di un uomo che non ha voluto abbassare la testa di fronte alla corruzione, alla paura. E per questo è stato ucciso. Era l’11 aprile 1990. (prosegue dopo la foto)

umberto mormile
Umberto Mormile

Chi era Umberto Mormile

Nel 1990 Umberto Mormile era un educatore carcerario in servizio presso il penitenziario di Opera, a Milano. Nel suo lavoro era un vero e proprio modello: arrivato poco dopo la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1985, credeva così tanto nella rieducazione dei condannati da tradurre la norma in progetti culturali ed educativi. Da creare una nuova “buona prassi”, un “metodo Mormile”. Una volta a Opera, però, si è imbattuto in delle circostanze piuttosto difficili. In delle persone piuttosto difficili. Parliamo di Domenico e Antonio Papalia, due fratelli che, nonostante la carcerazione, continuavano a essere il vertice dell’omonimo clan della ‘ndrangheta a Milano. La mafia del nord d’Italia.

A Opera c’erano degli scambi di favori. E Mormile ne era venuto a conoscenza. Lui, però, non ne voleva far parte. Secondo quanto emerso negli anni, infatti, pare proprio che Mormile si fosse rifiutato di fare un favore a Domenico Papalia, rispondendogli: “Io non sono dei servizi”. Quelle cinque parole. “Questa allusione sui rapporti servizi-Papalia, oltre che al rifiuto di fare un favore, fu fatale al Mormile”, ha dichiarato il collaboratore di giustizia Vittorio Foschini nel processo per l’omicidio di Umberto Mormile, giunto a sentenza definitiva il 25 novembre del 2008. Cosa significa questo? Che l’omicidio fu ordinato da Antonio Papalia, su mandato del fratello Domenico, ma solo dopo aver avuto il nulla osta dei servizi segreti? Una verità non accertata in questa sede.

umberto mormile omicidio
La scena dell’agguato in cui fu ucciso Umberto Mormile, Carpiano (MI), 11 aprile 1990

Domenico Papalia, il detenuto di più lungo corso della storia d’Italia

E’ doveroso un passaggio anche su Domenico Papalia, classe 1945 da Platì, disgraziato paese della Calabria ionica assurto agli onori della cronaca per l’elevata penetrazione mafiosa che ha caratterizzato la sua storia. Domenico Papalia è personaggio controverso e dalla lunghissima vicenda giudiziaria. Cugino di Francesco Barbaro “‘u castanu”, considerato per anni il numero uno della ‘ndrangheta di Platì e della zona ionica e morto a 91 anni in carcere nel 2018, Domenico Papalia detiene un triste primato: quello del carcerato di più lungo corso della storia d’Italia. Ben 44 anni, essendo ristretto dal lontano 1977 quando fu arrestato per un sequestro di persona.

Poi venne condannato per un omicidio del 1976, a Roma, quello di Antonio D’Agostino, boss emergente della ‘ndrangheta originario di Canolo, non lontano da Platì, e suo sodale ai tempi del fatto di sangue. D’Agostino era sospettato di aver rapporti con la destra eversiva romana e con i servizi segreti e per questo era sotto inchiesta a Roma da parte del giudice Vittorio Occorsio, anch’egli ucciso nello stesso anno, il 10 luglio 1976, dall’estremista di destra Pierluigi Concutelli. Omicidio, quello di D’Agostino, per il quale Domenico Papalia fu clamorosamente assolto 41 anni dopo, dopo un processo di revisione incentrato su una perizia balistica che escludeva la possibilità che questi fosse l’esecutore materiale del delitto. In carcere, condannato a più ergastoli, c’è anche suo fratello Antonio. Mentre l’altro fratello Rocco è uscito nel 2017 dopo 25 anni di detenzione a seguito della condanna nel procedimento “Nord-Sud”, il primo maxi-processo alla ‘ndrangheta nel Nord Italia iniziato con gli arresti del 1993.

Iscritto al Partito Radicale da molti anni, Papalia professa da sempre la sua innocenza anche in merito all’omicidio di Umberto Mormile. La sua condanna, è doveroso ricordarlo, è basata sulle testimonianze dei collaboratori di giustizia Vittorio Foschini e Antonino Cuzzola, quest’ultimo auto-accusatosi di essere uno dei due esecutori materiali del delitto. Attualmente i legali di Domenico Papalia (Annarita Franchi e Ambra Giovene) stanno lavorando per chiedere nei suoi confronti una domanda di grazia parziale, cioè di commutamento della pena dall’ergastolo in 30 anni di carcere, come ricordato anche nel corso dell’ultima assemblea di “Nessuno tocchi Caino”. Cosa che permetterebbe a Papalia, oggi 76enne, di uscire dalla sua cella dopo 44 anni.

Cosa c’entrano i servizi segreti in tutta questa storia?

Facciamo un passo indietro, cosa c’entrano i servizi segreti in tutta questa storia? Pare che in quel carcere Umberto Mormile si era scontrato con quello che, solo successivamente, è stato definito il Protocollo farfalla. Si tratta di un accordo tra i servizi segreti e l’amministrazione carceraria che permetteva agli agenti dei servizi di entrare in contatto, all’interno delle carceri, con esponenti delle organizzazioni criminali che scontavano il 41 bis. In cambio, si promettevano favori e benefici. Il tutto finalizzato allo scambio di informazioni, per creare un archivio di dati. E senza coinvolgere la magistratura. Ufficialmente, non si è sentito parlare del Protocollo farfalla fino al 2004, anno in cui è stato sottoscritto un accordo di collaborazione tra il DAP (Dipartimento di amministrazione penitenziaria) e l’ex SISDE.

Di prassi, però, pare che il Protocollo farfalla venisse utilizzato già da molto tempo, e soprattutto che non servisse semplicemente a raccogliere informazioni. Anzi. Rifiutandosi di fare dei favori ai Papalia, Mormile avrebbe letteralmente fatto inceppare il meccanismo di trasmissione e scambio di informazioni e ordini. E per questo è stato ucciso. 

Era l’11 aprile 1990. Due uomini a bordo di una Honda 600 (Antonio Schettini e Antonino Cuzzola, killer delle cosche lombarde della ‘ndrangheta “federate”, secondo quanto emerso nel processo, ndr) lo affiancarono sulla strada provinciale all’altezza di Carpiano. Fermo al semaforo, i killer approfittarono del momento per tirare fuori una pistola calibro 38 e sparare sei colpi. Sei colpi che gli furono fatali. Poche ore dopo, l’omicidio fu rivendicato dalla sedicente “Falange armata carceraria”. Un’organizzazione che, fino a quel momento, era del tutto sconosciuta. Solo in seguito, infatti, la sigla fu utilizzata per rivendicare diversi omicidi come quelli della Uno Bianca, o quelli del triennio 1992-1994. E questo, probabilmente, conferma che una lunga serie di omicidi e di attentati di quegli anni maturarono nel contesto della stessa strategia eversiva. Una strategia che univa le organizzazioni criminali e i servizi segreti. 

umberto mormile falange armata

Dopo la morte di Umberto Mormile, i depistaggi

Cos’è successo a Umberto Mormile dopo la sua morte? Il processo che si è aperto nei suoi confronti è stato una vera e propria farsa per moltissimo tempo. Silenzi e verità parziali, bugie e omertà sono state le ruote motrici di lunghe sentenze che, di fatto, non hanno portato a nulla. Se non alla condanna di Domenico Papalia, Antonio Papalia e Franco Coco Trovato in quanto mandanti, e di Antonio Schettini e Nino Cuzzola come esecutori.

Il nodo centrale della sentenza però è stato il depistaggio: la sua memoria è stata letteralmente infangata. Di lui è stato detto che era un corrotto, che aveva stipulato contratti con l’Ndrangheta e poi li aveva traditi. E che per questo era stato punito. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, però, la mancanza di riscontri oggettivi ha permesso di costruire un puzzle completamente diverso. Soprattutto quando alcuni pentiti hanno deciso di parlare. In particolare grazie a Vittorio Foschini è emersa la presenza di relazioni occulte tra le carceri e i servizi segreti. Un rapporto del quale Umberto Mormile era venuto a conoscenza, e che invece doveva rimanere nell’ombra. 

Secondo Vittorio Foschini, infatti, l’omicidio fu ordinato proprio da Antonio Papalia, ma solo dopo aver ricevuto il “nulla osta” dei servizi segreti. In seguito, poi, sarebbe stato lo stesso Papalia a imporre ai suoi complici di rivendicare l’omicidio a nome della Falange armata. 

Umberto Mormile ucciso per coprire un segreto

Umberto Mormile è stato ucciso per coprire un segreto. Di questo ne era convinto anche il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, che non si è tirato indietro dal ribadirlo durante il processo ‘Ndrangheta stragista. In quell’occasione, infatti, ha evidenziato come l’omicidio di Mormile rimanesse uno dei simboli del patto sporco tra pezzi di stato, servizi addestrati alla scuola delle operazioni sporche e, infine, le mafie. Uno dei teatri di questo rapporto era proprio il carcere di Opera, e tra i protagonisti in scena ci sarebbe stato Domenico Papalia, che a detta del collaboratore Vittorio Foschini aveva continui incontri in prigione con gli agenti segreti, con quelli che la magistratura ha definito “la parte infedele dello Stato”. 

Non solo. Foschini ha ripetuto le stesse parole anche nel giugno 2020, davanti alla corte d’Assise di Palermo, nell’ambito del processo per la trattativa Stato-mafia. “Nella ‘Ndrangheta era risaputo che Domenico Rocco e Antonio Papalia avevano contatti con i Servizi segreti – ha detto l’ex killer del gruppo capeggiato da Franco Coco-Trovato rispondendo alle domande del sostituto Pg Giuseppe Fici – C’era un patto per cui loro scesero a Reggio. Non si dovevano fare più sequestri e in cambio i servizi avrebbero lasciato stare i latitanti in pace. E promisero anche sconti di pena. E Papalia aveva anche paura dei servizi. Perché loro uccisero Totò D’Agostino, che aveva violato accordi. E, mi disse Papalia, lo uccisero davanti a lui. E fu costretto a accollarsi l’omicidio. Anche se si era sempre dichiarato innocente”. Come infatti dimostrò il processo di revisione, ma solo 41 anni dopo i fatti.

A seguito delle rivelazioni di Foschini, il fratello di Umberto Mormile, Stefano, decise di depositare, il 1* agosto 2018, un esposto alla Procura antimafia di Milano in cui chiedeva formalmente la riapertura delle indagini sull’omicidio del fratello e nominava quale proprio difensore l’avvocato Fabio Repici. In seguito alla ricezione della denuncia, il pubblico ministero disponeva l’apertura di un fascicolo a carico di ignoti indagati per il reato di concorso in omicidio ai danni di Umberto Mormile. Il fascicolo è assegnato ai pubblici ministeri Alessandra Dolci (coordinatrice della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano), Paola Biondolillo e Stefano Ammendola.

L’obiettivo dell’azione infamante nei confronti di Umberto Mormile era dunque quello di riuscire a nascondere un segreto che ha infangato la storia della nostra Repubblica? Una pagina nera che riflette cinque, luminose, parole: “Io non sono dei servizi”. Ancora oggi Umberto Mormile non è stato inserito nell’elenco delle vittime innocenti della mafia stilato dall’Associazione Libera e letto ogni anno il 21 marzo. E questo la dice lunga.

Nota degli autori

La vicenda di Umberto Mormile è la prima di una serie su una delle pagine più nere della storia d’Italia e ancora avvolta da una fitta coltre di nebbia. Che con l’aiuto di alcuni testimoni d’eccellenza cercheremo, in parte, di dissipare.