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Vitamina D, la sua carenza rende davvero così funesto il Covid-19 in Italia?

27/03/2020 11:17 - Aggiornamento 27/03/2020 11:32

Perché il Covid-19 ha aggredito in maniera così forte l’Italia? Può davvero aver influito così tanto la carenza di vitamina D nella popolazione? Che ruolo sta giocando tale mancanza nel nostro paese? A questi interrogativi stanno cercando di rispondere alcuni esperti, che si sono confrontati sul British Medical Journal: l’ex capo del Center of Disease Control americano Tom Frieden, alcuni medici inglesi e in Italia il professor Andrea Giustina, primario dell’Unità di Endocrinologia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e docente Ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele del capoluogo lombardo.

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Vitamina D, la sua carenza rende davvero così funesto il Covid-19 in Italia?

Ad Ok-Salute Benessere il dottor Andrea Giustina ha spiegato: «In Italia il tasso di letalità del coronavirus sembra essere maggiore rispetto a quello registrato in altri Paesi. Ad oggi questo dato è stato giustificato un po’ con motivazioni sociali (il nostro senso della famiglia e l’abitudine al contatto), un po’ con l’età media della popolazione. Abbiamo più anziani, quindi più persone fragili e/o con patologie croniche. Il fattore vitamina D entra naturalmente in queste motivazioni, perché quasi tutti gli anziani italiani hanno un’ipovitaminosi D». Come ha specificato l’endocrinologo a livello europeo l’Italia gode di un primato: stando ai dati epidemiologici il nostro è uno dei Paesi con la più alta prevalenza di carenza di questo ormone, «utile al benessere generale e quindi anche alla risposta immunitaria e alla prevenzione di infezioni sistemiche».

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«Il paradosso scandinavo» e la necessità di distribuire alimenti fortificati con la vitamina D

La parola “ormone” non è impiegata a caso, è importante, perché nonostante si definisca “vitamina”, a differenza della C, della A, della K o della E, la nostra necessità di D non può essere determinata solo dall’alimentazione. Da qui quello che è noto come “paradosso scandinavo”, ovvero il fatto che «il più alto livello di vitamina D» sia nei paesi del nord Europa a bassa esposizione al sole rispetto ai paesi del sud a maggiore esposizione al sole». Difatti l’alimentazione contribuisce solo ad un 20%, il rimanente fabbisogno deve essere dettato dall’esposizione ai raggi solari. Stando al chiuso si rischia proprio questa carenza di vitamina D, che potrebbe avere un nesso con l’esplosione violenta del Covid-19 da noi. Per ora una valida ipotesi.

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«Si tratta di un tema utile a comprendere l’impatto dello stile di vita di una popolazione nei confronti di una malattia»

La conferma può arrivare solo dall’esame dei livelli dell’ormone nel sangue di tutti i pazienti ospedalizzati con coronavirus. «Mi aspetto che tutti abbiano un livello basso di vitamina, ma per capire se quantità più alte sono davvero in grado di migliorare la risposta all’infezione, sarebbe utile osservare come reagiscono popolazioni senza carenza, come ad esempio la Scandinavia», ha chiarito Giustina, che tuttavia ha voluto specificare che non si può addurre ad una sola vitamina la causa di una pandemia. Parlarne però è importante: «Si tratta di un tema utile a comprendere l’impatto dello stile di vita di una popolazione nei confronti di una malattia. Con la possibilità, se poi la cosa dovesse essere confermata, di chiedere allo Stato di impegnarsi nella distribuzione di alimenti fortificati con la vitamina D», ha sottolineato l’endocrinologo.

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Lo studio dell’Università di Torino: «Il compenso può essere raggiunto esponendosi al sole»

Accanto a quest’analisi lo studio di Giancarlo Isaia, docente di Geriatria e presidente dell’Accademia di Medicina di Torino ed Enzo Medico, ordinario di Istologia all’Università del capoluogo piemontese. Anche questi ultimi hanno approfondito il ruolo che potrebbe aver svolto la mancanza di vitamina D nella diffusione del coronavirus. A riprova di ciò «l’insorgenza di un focolaio in Piemonte in un convento di suore di clausura, popolazione a più elevato rischio di ipovitaminosi D». Mentre la distribuzione geografica della pandemia «sembra potersi individuare maggiormente nei Paesi situati al di sopra del tropico del cancro, con relativa salvaguardia di quelli subtropicali», si legge in una nota dell’Università di Torino.

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