“Coronavirus, perché così tanti morti in Lombardia?”, dice così il titolo di un articolo pubblicato stamani su ‘Il Corriere della sera’. Ed effettivamente è una domanda che cominciamo a farci un po’ tutti alla luce dei vari bollettini diffusi in queste settimane dal Capo della Protezione Civile Angelo Borrelli. Dai dati dell’Istat e del ministero della Salute, emerge chiaramente che a Milano stanno morendo ogni giorno 90 residenti contro i 30 dell’anno scorso, a Bergamo 21 contro 4, a Brescia 20 invece di 5. Cifre importanti su cui dovrebbero riflettere il governatore Attilio Fontana e il suo assessore alla Sanità Giulio Gallera. Entrambi dovrebbero chiarire il motivo di tanti decessi rispetto al Veneto e all’Emilia Romagna. È vero il 25 febbraio scorso in Lombardia erano 231 i contagiati, mentre nella regione di Zaia 42 e in casa Bonaccini 26, ma è una roccaforte questa che non giustifica più la crescita esponenziale del numero delle vittime e la diffusione dell’epidemia.
Coronavirus Lombardia, perché così tanti morti qui?
Le giornaliste Milena Gabanelli e Simona Ravizza su ‘Il Corriere della sera’ provano a ragionare sulle concause che hanno portato ad un boom di contagi (come pure di decessi) in Lombardia, che non ha avuto luogo in altre regioni. Sul piatto della bilancia mettono le rianimazioni in crisi, la mancata sorveglianza territoriale, le posizioni poco chiare sui tamponi, l’ansia per la conferenza stampa delle 18, a cui ci sentiamo di aggiungere in tutta tranquillità il caso delle mascherine e la mancanza di polso (o quanto meno la poca convinzione nel prendere decisioni).
Mettendo sotto la lente di ingrandimento gli ultimi mesi possiamo dire che la Lombardia si è scoperta parecchio fragile dinnanzi al Coronavirus. Al collasso gli ospedali teatro di un’ondata inaspettata di pazienti in gravi condizioni, primari senza disposizioni chiare e personale medico privo di dispositivi di protezione adeguati. Determinante il fattore tempo, non solo il problema della Sanità Pubblica. Al 21 febbraio i posti letto nelle terapie intensive erano solo 8,5 su 100mila abitanti (10 su 100mila, invece, in Emilia-Romagna e Veneto) e il 30% di essi risultavano in mano al settore privato convenzionato.
Dal collasso delle rianimazioni al problema dei tamponi
Problemi gravi in Lombardia anche nell’accertamento dei casi con i pazienti lasciati in balia di sé stessi. In questi ultimi mesi abbiamo raccontato anche noi storie di parenti o colleghi di persone positive al Covid-19 decedute alle quali non era stato fatto il tampone. L’arrivo in ospedale di casi già troppo gravi è il leitmotiv delle testimonianze delle cronache lombarde. I medici di base sono stati lasciati andare allo sbaraglio. Come ribadiscono con forza Gabanelli e Ravizza: “La delibera che dà indicazioni precise sulla gestione territoriale del Covid-19 è del 23 marzo, un mese dopo il focolaio di Codogno. Per le visite domiciliari vengono costituite le Usca (Unità speciali di continuità assistenziale): una squadra di medici ogni 50 mila abitanti. Duecento per la Lombardia: ancora oggi quelle attive sono solo 37″.
La troppa importanza data al bollettino serale e la mancata spinta decisionale di Fontana
“La Lombardia, che più di ogni altra invoca da sempre l’autonomia, è la Regione che dall’inizio dell’epidemia la esercita meno”, si legge sempre sul Corriere. Ed è assolutamente vero. Il governatore Fontana e Gallera, pur avendo fatto pressione sul governo lo scorso 8 marzo per chiudere Nembro e Alzano nella Bergamasca, hanno atteso il via libera del premier Conte. La mancata spinta decisionale è venuta meno anche quando si è trattato della somministrazione dei tamponi. La decisione di effettuarli solo su plurisintomatici o di aumentarli è arrivata dal Governo, non dalla Regione. L’unica preoccupazione? Quella del bollettino serale delle 18, i cui dati riportati sono tuttavia da prendere sempre con le dovute cautele. Il numero dei contagi riporta, infatti, solo coloro a cui è stato fatto il tampone. Ed è legittimo quindi pensare che i casi positivi al Covid-19 siano di più. Stesso discorso per i guariti: nel computo ci si basa soltanto sui dimessi dal Pronto Soccorso. Alla luce di tutto questo sempre meno rosea appare anche la cosiddetta ‘fase due’, che comporterà il graduale sblocco del lockdown e il rilancio dell’economia. Anche perché restare in casa nell’attesa che passi non può più essere sola strategia da adottare. Non dimentichiamoci che la Lombardia è la regione più ricca d’Europa e che Milano è piena di eccellenze e talenti. Basta non tenerli da parte e relegarli ai margini. leggi anche —> Coronavirus riapertura Italia: la proposta scientifica di Burioni e di altri virologi