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Coronavirus Milano, infettivologo Galli: «Tanti casi in Italia? C’è un motivo specifico»

24/02/2020 10:09 - Aggiornamento 24/02/2020 10:22

Luigi Ripamonti de Il Corriere della sera ha intervistato Massimo Galli, ordinario di Malattie infettive all’Università degli Studi di Milano e primario del reparto di Malattie infettive III dell’Ospedale Sacco del capoluogo lombardo. Il professore si è prestato a rispondere ad alcune domande circa il COVID-19. Il dottor Massimo Galli ha spiegato il motivo per cui in Italia, a differenza degli altri stati europei, si sono registrati tanti casi del nuovo coronavirus.

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Coronavirus Milano, infettivologo Galli: «Tanti casi in Italia? C’è un motivo specifico»

«Non è affatto detto che in altri Paesi non possa capitare la stessa cosa. Da noi si è verificata la situazione più sfortunata possibile, cioè l’innescarsi di un’epidemia nel contesto di un ospedale, come accadde per la Mers a Seul nel 2015. Purtroppo, in questi casi, un ospedale si può trasformare in uno spaventoso amplificatore del contagio se la malattia viene portata da un paziente per il quale non appare un rischio correlato. Il contatto con altri pazienti con la medesima patologia oppure la provenienza da un Paese significativamente interessato dall’infezione. Chi è andato all’ospedale di Codogno non era stato in Cina e, fra l’altro, la persona proveniente da Shanghai che a posteriori si era ipotizzato potesse averla contagiata è stato appurato non aver contratto l’infezione. Non sappiamo quindi ancora chi ha portato nell’area di Codogno il coronavirus, però il primo caso clinicamente impegnativo di Covid-19 è stato trattato senza le precauzioni del caso perché interpretato come altra patologia», ha affermato il primario del reparto di Malattie infettive III dell’Ospedale Sacco.

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Il dottor Massimo Gallo ha chiarito cosa è accaduto dopo l’entrata del virus nell’ospedale di Codogno«L’epidemia ospedaliera implica una serie di casi secondari e terziari, e forse anche quaternari. Dobbiamo capire ora bene come si è diffusa l’infezione e come si diffonderà. Che poi la trasmissione sia avvenuta inizialmente davvero in un bar o in un altro luogo andrà verificato quando avremo a disposizione una catena epidemiologica corretta. Quello che si può dire di sicuro è che queste infezioni sono veicolate più facilmente nei locali chiusi e per contatti relativamente ravvicinati, sotto i due metri di distanza»

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Quali strade ha percorso il COVID-19 per arrivare nel nostro paese? Le spiegazioni del professor Galli

Ma come ha fatto il nuovo coronavirus ad arrivare da noi? Quali strade ha percorso il COVID-19? «È verosimile che qualcuno, arrivato in una fase ancora di incubazione, abbia sviluppato l’infezione quando era già nel nostro Paese con un quadro clinico senza sintomi o con sintomi molto lievi, che gli hanno consentito di condurre la sua vita più o meno normalmente e ha così potuto infettare del tutto inconsapevolmente una serie di persone. Se l’avessimo fermato alla frontiera avremmo anche potuto non renderci conto della sua situazione. D’altro canto in Francia un cittadino britannico proveniente da Singapore ha infettato diverse persone pur arrivando da una zona non considerata ad alto rischio», ha affermato il professore, che ha specificato che non è detto che il virus sia stato trasmesso da un cinese. A detta sua potrebbe essere stato anche un uomo d’affari italiano di ritorno dal paese del Sol Levante.

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Con la stagione calda diminuiranno i contagi? «Per un virus nuovo non ci possono essere certezze. In Cina, nel 2002-2003, la Sars è scomparsa verso giugno-luglio. È però difficile dire se sia accaduto per l’arrivo del caldo, per la riduzione delle aggregazioni in luoghi chiusi o per gli interventi messi in atto. Anche le analogie con le epidemie influenzali sono possibili soltanto fino a un certo punto perché alcune di esse non si sono attenute in modo rigoroso all’andamento stagionale».

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Coronavirus Milano: l’infettivologo spiega le armi che abbiamo a disposizione

Sul finale il professor Massimo Galli ha spiegato quali armi abbiamo contro il COVID-19«Per curare i malati abbiamo possibilità solo di tipo sperimentale in uso “compassionevole”, cioè non all’interno di uno studio controllato, bensì in utilizzo diretto per vedere se la cura funziona. In questo modo, però avremo poche informazioni sull’efficacia o meno della terapia perché se il decorso dovesse essere infausto non potremo dire in assoluto che il farmaco non funziona. Se invece fosse buono non potremmo essere sicuri che sia per merito del farmaco. Allo stato attuale si ragiona sul ricorso all’associazione Lopinavir/Ritonavir a lungo utilizzato contro l’Hiv, però non abbiamo prove con studi in vivo che funzioni davvero anche su questo coronavirus. Un’altra opzione presa in considerazione è il Remdesivir. La prima soluzione è un inibitore delle proteasi, agisce cioè verso un enzima che assembla le proteine virali, una sorta di “sarto”. Il secondo farmaco agisce invece inserisce una “tesserina” sbagliata nella catena dell’Rna del virus in modo che non possa più replicarsi».

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Qualche parola poi sulla creazione di un vaccino per contrastare il virus: «Nel caso di Covid -19 l’infezione sta interessando tutto il mondo e quindi lo sforzo della ricerca è molto più robusto e diffuso. Va infine ricordato che nella produzione di un vaccino entrano tante variabili che rendono difficile fare previsioni. Sarebbe più facile realizzare un vaccino per un virus pandemico influenzale perché le modalità di produzione per quel tipo di vaccino sono ampiamente sperimentate. Intanto sarebbe opportuno imparare a vaccinarci contro l’influenza. I dati di adesione, anche fra gli ultrasessantacinquenni sono ancora troppo bassi».

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