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Egitto, un’altra vittima del regime: “Torturato e picchiato per 8 mesi”

13/02/2020 20:19

E’ sufficiente essere un “potenziale oppositore del regime” per essere arrestato in Egitto. Secondo la BBC, Giulio Regeni, Patrick Zaky o Mustafa Qasem, morto il 14 gennaio scorso nel carcere Aqrab, sono solamente tre dei circa 60mila oppositori, attivisti o giornalisti fermati e poi trattenuti per motivi politici. Un altro nome è quello di Mostafa Naghi, che queste torture le ha viste e in parte subite per 8 mesi come detenuto in Egitto.

Egitto, i controlli sugli oppositori del regime

L’Egitto è uno degli stati con meno libertà di stampa al mondo. Nelle sue carceri non finiscono solamente egiziani, ma anche molti stranieri come Giulio Regeni o Mustafa Qasem, un cittadino americano morto lo scorso mese in una delle carceri più dure del Paese. Tutti hanno una cosa in comune: l’accusa di voler rovesciare il regime. Oggi si parla tanto di Patrick Zaky, affinché il suo destino non si concluda come quello di Regeni. Ma in Egitto gli arresti, gli interrogatori e le torture sono un realtà che sta coinvolgendo migliaia e migliaia di persone, e la comunità internazionale dovrebbe intervenire.

Secondo un rapporto di Human Rights Watch, da anni le autorità egiziane starebbero limitando, controllando, ritirando documenti e arrestando tutti i potenziali oppositori del regime. La ricerca si attiva online tramite i servizi di sicurezza, e poi prende forma con il fermo in aeroporto, che apre le porte di un inferno di interrogatori, detenzioni, condizioni di costante violenza tra percosse, insulti e torture. In quasi tutti i casi, la conclusione è una: la morte. A confermarlo è anche Mostafa Naghi, un ex detenuto delle carceri egiziane che a Fanpage.it ha raccontato la sua esperienza.

Egitto, la testimonianza di Mostafa Naghi

La “festa di benvenuto” che gli egiziani riservano ai presunti oppositori del regime si chiama “Tashrifa“: comincia come l’arresto, si sviluppa in un luogo di polizia e si conclude con il trasferimento in un carcere. Durante la “festa”, vengono messe in pratica delle torture come legare le mani e i piedi dell’arrestato, appenderlo al muro per poi percuoterlo con dei bastoni, elettrizzarlo nelle parti intime, denudarlo e lasciarlo al freddo di fronte agli occhi divertiti dei poliziotti. Tutto questo Mostafa Naghi l’ha visto, e in parte subìto, per otto lunghi mesi.

“Mi hanno arrestato per strada il 4 aprile 2014 ad Alessandria con l’accusa di voler rovesciare il regime e di essere un oppositore. Mi hanno ammanettato e spinto in un veicolo. Non sapevo dove fossimo diretti, nel furgone della polizia oltre a me c’erano decine di altre persone. Eravamo tutti ammassati, faceva caldo e non c’erano finestre per respirare. Una volta arrivati all’interno dello stabile, (la sede dei servizi di sicurezza di Alessandria) ci hanno ritirato tutto, portafogli, telefono e ci hanno fatto “tashrifa”: ci hanno fatto camminare in mezzo a due fila di agenti mentre questi ci picchiavano, bastonavano, insultavano“, ha raccontato a Fanpage.it.

Egitto

Mostafa Naghi: “Nella cella piccolissima eravamo almeno in venti”

“Dipendeva poi da quali agenti trovi, io ho preso solo pugni, calci e schiaffi, ma ad un mio amico gli hanno spaccato le gambe- ha rivelato Mostafa Naghi- Ad altri, invece dopo questo passaggio venivano direttamente portati ai piani superiori e da lì arrivavano le urla, i pianti. Sentivo le botte. Quelli erano gli arrestati che facevano parte di partiti o movimenti di opposizione. Le urla di chi veniva torturato erano continue. Di giorno e di notte. E provenivano, mi hanno spiegato, soprattutto dal quarto piano, dove si torturavano i prigionieri politici. Chi saliva in quel piano non scendeva più. Tutti avevamo paura di finire al quarto piano. Mi hanno interrogato insultandomi e picchiandomi in maniera continua e a più riprese facendomi domande come “fai parte dell’opposizione? Perché hai la barba?” Dopo l’interrogatorio tornavo in cella. Piccolissima, dove eravamo almeno in venti.

Dopo un giorno- continua l’ex detenuto- senza cibo e sonno, mi hanno trasferito in un posto di polizia, dove hanno continuato a picchiarmi  per settimane e solo dopo un mese di sofferenze, pagando i poliziotti, mi hanno trasferito nel carcere “Borg el Arab”. Pensavo fosse un posto migliore. Mi sbagliavo. Sono rimasto 7 mesi in carcere con continue torture. Venivamo denudati e ci lanciavano acqua ghiacciata, ci spaventavano con i cani davanti alle celle e potevamo essere picchiati di notte o di giorno, in qualsiasi momento, senza spiegazioni. Alcuni venivano elettrizzati. Quando la corrente andava e veniva e sentivamo le urla significava questo: elettroshock”.

Egitto, la liberazione e la condanna di Mostafa Naghi

Il racconto del terrore non finisce qui. Durante l’intervista, Mostafa Naghi ha spiegato che “c’erano giorni dove sapevamo che sarebbero arrivate le botte. Erano i giorni che precedevano l’anniversario del colpo di stato del 3 luglio 2013. In quei giorni si spegnevano le luci e sentivamo dei rumori terrificanti arrivare dalla stanza delle guardie. Erano loro che in coro emettevano come degli ululati, mentre i cani davanti alle nostre celle ringhiavano. In quei frangenti tutti avevamo terrore, un terrore incredibile perché significa che ci sarebbero state torture, le peggiori. Mangiavamo poco e dormivamo a turni”.

Dopo 8 mesi di prigionia, nel novembre 2014, Mostafa finalmente viene rilasciato. Le accuse a suo carico vengono considerate da parte del giudice inconsistenti, e viene ordinata la scarcerazione. Una volta libero, Mostafa decide di trasferirsi in Italia, dove conosce quella che diventerà la sua futura moglie. Nel 2015, però, il tribunale di Alessandria lo ha condannato a 15 anni, in contumacia, con l’accusa di voler rovesciare il regime. Amnesty International da anni accusa il regime egiziano di violare i diritti umani e di usare la tortura in maniera sistematica contro gli oppositori attraverso varie forme di coercizione fisica come riportato in un loro rapporto sulla condizione dei detenuti in Egitto.

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