I giornalisti minacciati dalla mafia sono una “normalità” in Italia, peccato che pochi o quasi nessuno ne parli. Di Paolo Borrometi, 36 anni, siciliano di Modica, abbiamo già ricordato su queste pagine l’impegno, un vero e proprio sacrificio personale, per l’amore della verità. Nessuna remora nel mettersi in gioco in prima persona, per denunciare facendo nomi e cognomi dei mafiosi e di chi li sostiene, dalla politica al mondo delle imprese. Come lui, decine di altri cronisti di frontiera, giovani e meno giovani, minacciati di morte un giorno sì e l’altro pure.
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Paolo Borrometi, «Se non ti fai i fatti tuoi questa è solo la prima»
In una lunga intervista alla trasmissione televisiva “Vieni da me”, Paolo Borrometi ha raccontato la sua vicenda personale di giornalista minacciato dalla mafia, ricordando uno degli episodi più dolorosi. «Il 16 aprile del 2014 due uomini incappucciati mi aggredirono fisicamente spezzandomi una spalla in tre parti, che ancora oggi ha una menomazione permanente del 20%. Qualche giorno prima mi invitarono a farmi i fatti miei con una chiamata, una frase che ripeterono quel giorno prima di lasciarmi a terra: “Se non ti fai i fatti tuoi, questa è sola la prima”. Quella frase rimbomba sempre nella mia mente, è il momento della mia decisione: per la prima volta ho avuto paura di morire. La cosa più brutta non è stata solo quell’aggressione, ma quella violazione del tuo essere e della tua vita, e anche quell’isolamento. Il problema non era chi avesse pestato Paolo Borrometi, ma è cosa avesse fatto Paolo Borrometi per essersi fatto pestare».
Borrometi poi sottolinea l’aspetto decisivo, il perdurare della cultura dell’omertà, nonostante i grandi passi avanti dell’antimafia in terra di Sicilia. «C’è ancora una cultura nella nostra terra per la quale la vittima deve sempre nascondere qualcosa e alla fine diventa il carnefice – dice Borrometi – Io dovevo aver dato fastidio a chissà quale donna… Questa fu la cosa che mi fece più male. Nei giorni successivi, solo con la mia famiglia, sentire quell’isolamento è stato uno dei momenti peggiori. Invito chi ci sta guardando a lasciare da soli o da sole le persone che si impegnano, perché altrimenti la mafia avrà vinto in quel modo».
«La vita sotto scorta è un inferno»
«La vita sotto scorta è un inferno», ha aggiunto Paolo Borrometi, che ha poi evidenziato: «Vivo ogni giorno con la paura, ma ho continuato a scrivere: se noi diamo la sensazione che vincono loro, è la fine. Loro, alla fine, non vincono mai, anche se questo costa tanto». Un messaggio chiarissimo e un incoraggiamento per tutti i giornalisti che, pur minacciati, perseverano nel loro lavoro spesso in solitudine, abbandonati anche dalle Istituzioni. Borrometi, che ricordiamo è presidente dell’associazione Articolo 21 liberi di… e da ottobre 2019 vicedirettore dell’Agi, ha infine ricordato il grande impegno delle forze dell’ordine, ringraziando i ragazzi della sua scorta. «Io devo ringraziare chi fa la scorta, ho trovato una seconda famiglia, hanno fatto di tutto per mettermi a mio agio. Io vivo a Roma, lontano dalla mia terra di Sicilia e dai miei affetti: lì c’era e c’è la mia vita, non è un caso che io ho continuato a scrivere nonostante tutto». >> La sfacciattaggine della mafia 2.0: il caso Borrometi