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Strage di Capaci, Paparcuri rivela l’unica volta in cui ha visto piangere Falcone

23/05/2022 08:55 - Aggiornamento 23/05/2022 08:56

Sono trascorsi 30 anni dalla strage di Capaci, in Sicilia. Il 23 maggio del 1992 alle 17:57 una carica dalla potenza di 500 chilogrammi di tritolo fece esplodere un tratto dell’autostrada A29 per uccidere il magistrato Giovanni Falcone. Nell’attentato compiuto da Cosa Nostra persero la vita anche la moglie Francesca Morvillo, 47 anni e pure lei magistrato, e i tre agenti della scorta: Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, entrambi trentenni, e Vito Schifani, di 27 anni. Ospite della diretta di «Millennium Live», Giovanni Paparcuri, ex consulente informatico del pool antimafia e anima del museo Falcone e Borsellino, ha ricordato assieme a Mario Portanova e Giuseppe Pipitone alcuni momenti della vita di Giovanni Falcone, svelando, tra le tante, l’unica occasione in cui ha visto piangere il magistrato antimafia. «Quando mi hanno trattato male, il dottore Falcone mi diceva se ne futtisse in dialetto, li vuole fare scoppiare? Gli sorrida in faccia. Infatti è quello che faceva lui, se vedete le interviste… è sempre sorridente», ha esordito Paparcuri.

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Strage di Capaci, Paparcuri rivela l’unica volta in cui ha visto piangere Falcone

Parlando al programma «Millenium Live» di Giovanni Falcone, Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage di via Pipitone Federico, ha detto poi: «L’unico momento in cui perde il sorriso fu l’intervista subito dopo l’omicidio Lima, una volta sola l’ho visto piangere e non fu in un funerale… l’ho visto piangere quando andò via da Palermo il consigliere Antonino Caponnetto, aveva gli occhi pieni di lacrime, quella fu la dimostrazione che era un uomo come noi». È grazie a Paparcuri che oggi tutti possiamo recarci al museo Falcone e Borsellino, realizzato dall’Anm nell’ufficio in cui i due magistrati lavorarono negli anni Ottanta. Fino ad oggi è stato visitato da oltre 30 mila persone provenienti da tutto il mondo. Si trova nel “bunkerino” al piano ammezzato del palazzo di giustizia. È stato inaugurato al pubblico il 24 maggio del 20016, da allora è un andirivieni di persone che non hanno dimenticato il sacrificio di Falcone e Borsellino. Non ci sono solo le scrivanie dei due magistrati, i loro oggetti personali, copie di atti fondamentali nella lotta a Cosa nostra, ma sono presenti tutte le apparecchiature impiegate per catalogare i documenti. Si ha la percezione visitando il museo di entrare nell’officina del Maxi Processo.

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«Una volta morti tutti amici, non è vero: erano soli»

«Non sono eroi, ma uomini come noi, in carne ed ossa. Chiamarli eroi è solo un modo per procurarsi un alibi e raccontarsi che noi non possiamo fare nulla di concreto contro la mafia perché servono doti straordinarie che non possediamo», le parole di Paparcuri a «Today». Ha consegnato poi un giudizio severissimo: «Il problema del dottore Falcone e del dottore Borsellino non era Cosa nostra, avevano scelto di fare i magistrati e sapevano a cosa andavano incontro, il problema erano i loro colleghi, le persone che lavoravano in questo palazzo in quegli anni e che sempre li osteggiarono. Una volta morti sono diventati tutti amici, conoscenti e collaboratori. Non è vero: erano soli». Parole che soprattutto oggi debbono farci riflettere. Leggi anche l’articolo —> Vito Schifani, il figlio svela come ha scoperto che la mafia aveva ucciso il padre

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