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Liliana Segre, la storia da brividi di Janine: “Ad Auschwitz superai la selezione per tre volte”

27/01/2022 11:05 - Aggiornamento 27/01/2022 11:06

«Fino a quando la mia stella brillerà» è un libro-testimonianza per ragazzi scritto da Daniela Palumbo e Liliana Segre, in cui quest’ultima narra la sua vita e la sua esperienza di deportata ad Auschwitz. Un racconto toccante, introdotto da Ferruccio De Bortoli, di cui vogliamo riportare un passo particolarmente significativo, a cui più volte ha fatto accenno la stessa senatrice a vita durante le sue interviste. La sera in cui a Liliana Segre è stato detto che non avrebbe più potuto andare a scuola, lei non sapeva nemmeno di essere ebrea. In poco tempo i giochi, le corse coi cavalli e i regali di suo papà son diventati un ricordo. Dapprima emarginata, poi arrestata. A tredici anni la deportazione in quell’inferno a cielo aperto, che era Auschwitz. Assieme ad altri, Liliana Segre partì il 30 gennaio 1944 dal binario 21 della stazione Centrale di Milano. È stata lei l’unica bambina di quel treno a tornare indietro. “Ogni sera nel campo cercava in cielo la sua stella. Poi, ripeteva dentro di sé: finché io sarò viva, tu continuerai a brillare”, si legge nell’introduzione.

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Liliana Segre, la storia da brividi di Janine: “Ad Auschwitz superai la selezione per tre volte”

“Ad Auschwitz superai la selezione per tre volte. Quando ci chiamavano sapevamo che era per decidere se eravamo ancora utili e potevamo andare avanti, o se eravamo vecchi pezzi irrecuperabili. Da buttare. Era un momento terribile. Bastava un cenno ed eri salvo, un altro ti condannava. Dovevamo metterci in fila, nude, passare davanti a due SS e a un medico nazista. Ci aprivano la bocca, ci esaminavano in ogni angolo del corpo per vedere se potevamo ancora lavorare. Chi era troppo stanca o troppo magra, o ferita, veniva eliminata. Bastavano pochi secondi agli aguzzini per capire se era meglio farci morire o farci vivere. Io vedevo le altre, orrendi scheletri impauriti, e sapevo di essere come loro. Gli ufficiali e i medici erano sempre eleganti, impeccabili e tirati a lucido, in pace con la loro coscienza. Era sufficiente un cenno del capo degli aguzzini, che voleva dire “avanti”, ed eri salva. Io pensavo solo a questo quando ero lì, a quel cenno. Ero felice quando arrivava, perché avevo tredici anni, poi quattordici. Volevo vivere. Ricordo la prima selezione. Dopo avermi analizzata il medico notò una cicatrice. ‘Forse mi manderà a morte per questa…’, pensai e mi venne il panico. Lui mi chiese di dove fossi e io con un filo di voce ma, cercando di restare calma, risposi che ero italiana. Trattenevo il respiro. Dopo aver riso, insieme agli altri, del medico italiano che mi aveva fatto quella orrenda cicatrice, il dottore nazista mi fece cenno di andare avanti. Significava che avevo passato la selezione! Ero viva, viva, viva! Ero così felice di poter tornare nel campo che tutto mi sembrava più facile”, questo il racconto di Liliana Segre.

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“Lei andò davanti agli aguzzini, nuda, cercando di nascondere la sua mutilazione”

“Poi vidi Janine. Era una ragazza francese, erano mesi che lavoravamo una accanto all’altra nella fabbrica di munizioni. Janine era addetta alla macchina che tagliava l’acciaio. Qualche giorno prima quella maledetta macchina le aveva tranciato le prime falangi di due dita. Lei andò davanti agli aguzzini, nuda, cercando di nascondere la sua mutilazione. Ma quelli le videro subito le dita ferite e presero il suo numero tatuato sul corpo nudo. Voleva dire che la mandavano a morire. Janine non sarebbe tornata nel campo. Janine non era un’estranea per me, la vedevo tutti i giorni, avevamo scambiato qualche frase, ci sorridevamo per salutarci. Eppure non le dissi niente. Non mi voltai quando la portarono via. Non le dissi addio. Avevo paura di uscire dall’invisibilità nella quale mi nascondevo, feci finta di niente e ricominciai a mettere una gamba dietro l’altra e camminare, pur di vivere. Racconto sempre la storia di Janine. È un rimorso che mi porto dentro”, si legge nel libro. “Il rimorso di non aver avuto il coraggio di dirle addio. Di farle sentire, in quel momento che Janine stava andando a morire, che la sua vita era importante per me. Che noi non eravamo come gli aguzzini ma ci sentivamo, ancora e nonostante tutto, capaci di amare. Invece non lo feci. Il rimorso non mi diede pace per tanto, tanto tempo. Sapevo che nel momento in cui non avevo avuto il coraggio di dire addio a Janine, avevano vinto loro, i nostri aguzzini, perché ci avevano privati della nostra umanità e della pietà verso un altro essere umano. Era questa la loro vittoria, era questo il loro obiettivo: annientare la nostra umanità”. Leggi anche l’articolo —> Liliana Segre e la stroncatura a ‘La vita è bella’: «Un filmetto senza pretese, falso»

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Liliana Segre e l’ultima testimonianza pubblica: “Per un attimo vidi una pistola a terra”

Altrettanto commovente l’ultima testimonianza pubblica di Liliana Segre nella tensostruttura allestita alla Cittadella della pace di Rondine, ad Arezzo, due anni fa. “Quando si toglie l’umanità alle persone bisogna astrarsi e togliersi da lì col pensiero se si vuole vivere. Scegliere sempre la vita. Io sono viva per caso. Perché tutte sceglievano la vita, poche quelle che si sono suicidate anche se era facilissimo”. E ancora: “Non ho mai perdonato, come non ho dimenticato, certe cose non sono mai riuscita a perdonarle. Il campo di sterminio funzionava alla perfezione, da anni, non c’era il minimo errore. Cominciammo a capire che dovevamo cominciare a dimenticare il proprio nome, che nella tradizione ebraica ha un significato. Mi venne tatuato un numero sul braccio e dopo tanti anni si legge ancora bene, 75190. E dovemmo subito impararlo in tedesco. Quando entrai ad Auschwitz non avevo ancora studiato Dante, lo studiai dopo, ed eravamo condannate a delle pene ma non c’era il contrappasso: pensavo di essere impazzita. Non racconto mai tutti i dettagli della mia prigionia”, le parole della testimone dell’Olocausto. “Per un attimo vidi una pistola a terra, pensai di raccoglierla. Ma non lo feci. Capii che io non ero come il mio assassino. Da allora sono diventata donna libera e di pace con cui ho convissuto fino ad adesso”, ha concluso. Leggi anche l’articolo —> “Se Dio esiste dovrà chiedermi perdono”. Giornata della Memoria: le frasi più toccanti per non dimenticare

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